sabato 27 febbraio 2021

Recensioni discografiche: "L'Euridice" di Giulio Caccini


Quando Enrico IV di Francia e Maria de' Medici si sposarono nell'anno 1600 a Firenze, una nuova forma d'arte, l'opera, giocò un ruolo fondamentale nelle celebrazioni del matrimonio: fu in questa occasione, precisamente il 6 ottobre a Palazzo Pitti, che venne rappresentata per la prima volta L'Euridice di Jacopo Peri. Nel frattempo, Giulio Caccini, altro componente della Camerata de' Bardi in contrasto con il suo illustre collega, anticipò il rivale nella pubblicazione della sua personale versione dello stesso libretto del Rinuccini nel mese di Dicembre. Ne nacque un'opera caratterizzata, rispetto a quella omonima di Peri
, per un lirismo, un'emozione e una tecnica di scrittura vocale che già preannunciano L'Orfeo di Claudio Monteverdi.

Questa registrazione, curata dalla casa discografica Ricercaroltre ad essere la prima assoluta dell'opera di Caccini, è anche la prima realizzazione discografica dell'ensemble Scherzi Musicali: voci giovani e fresche in grado di comunicare al meglio la freschezza, l'ingenuità e l'innocenza di Orfeo e del suo universo. Al fine di rendere fruibile al pubblico moderno questo capolavoro indiscusso degli albori del melodramma, Nicolas Achten, direttore dell'ensemble, si è posto tutta una serie di quesiti che hanno richiesto lunghe e laboriose riflessioni.

Orfeo, come Caccini, si accompagnava al canto con la tiorba. Nell'idea di una compagnie "all'antica", gli altri cantori potevano ricoprire sia ruoli "terreni", come ninfe e pastori, sia ruoli "spirituali", come Venere, Plutone, Carone e Proserpina. Quanto all'effetto strumentale, esso raccoglieva i più importanti strumenti di basso continuo presenti a Firenze intorno al 1600 (Caccini era capace di suonarli tutti): due grandi tiorbe o chitarroni, un liuto attiorbato, una chitarra, un'arpa tripla, un organo positivo, un lirone, una viola da gamba e due clavicembali (uno dei due con corde di budello). Ognuno di questi strumenti s'alterna o si combina, si completa o si contrappone nei differenti affetti, al fine di veicolare al meglio l'emozione del testo. Per quanto riguarda infine l'uso del coro dell'Euridice, non è certamente quella grande massa di sessantacinque cantori che si impiegò per altre rappresentazioni come Il rapimento di Cefalo. Si legge sovente nella partitura "Ninfa del coro" o "Pastore del coro" o ancora "Coro à 5": ciò significa probabilmente che i cori erano destinati a un gruppo di solisti più che agli insiemi corali a cui siamo abituati oggi. La scrittura ornata che caratterizza taluni di questi "cori" e l'intimità di Palazzo Pitti dove l'opera venne rappresentata non fanno che avvallare questa supposizione. Il termine "Coro" qualifica egualmente delle corte frasi in stile recitativo: si tratta per lo più di alcuni interventi attribuiti alle ninfe o ai pastori.

Con L'Euridice, noi siamo di fronte a una partitura scritta prima di gran parte del repertorio che noi conosciamo oggi. È dunque difficile comprendere le posizioni di Caccini, il quale, dopo aver appreso il contrappunto, lo rigetta in toto al fine di creare un modo di fare musica più lineare e leggero. Anche la notazione di questo nuovo linguaggio si rivelò una sfida per lui: egli aveva a disposizione un metodo di scrittura adatto alla polifonia vocale, mentre la nuova forma musicale necessitava di un sistema completamente diverso. Questo problema di notazione fu un ulteriore motivo di contrasto fra Caccini e Peri: mentre quest'ultimo riteneva necessario ascoltare le arie cantate prima dall'autore per comprendere come eseguirle, Caccini considerava tutto superfluo se si poteva usufruire di una notazione sufficientemente chiara e comprensibile. Si è tentato così, malgrado la notazione metrica dei recitativi, di ritrovare la flessibilità della lingua italiana usando la "sprezzatura" pretesa da Caccini ("Bisogna cantare senza misura, quasi favellando in armonia con sprezzatura, togliendosi al canto una certa terminata angustia e secchezza, si rende piacevole licenzioso e arioso, siccome nel parlar comune la eloquenzia e la fecondia rende agevoli e dolci le cose di cui si favella...") e confermata da diverse fonti contemporanee.

Numerose sono le fonti che testimoniano la presenza di intermedi musicali tra i vari atti delle opere di allora. In questa realizzazione si è scelto di preservare al massimo l'universo musicale di Caccini, punteggiando l'opera con le sue variazioni sull'aria La Romanesca.

Caccini scrisse la sua Euridice in un'ottica di ricerca: è questo lo spirito con cui questa registrazione tenta di esplorare e sperimentare come meglio rendere giustizia alla sua musica. La prefazione delle Nuove Musiche è il faro che permette dissipare le zone d'ombra circa l'esecuzione di quest'opera. Concepita e scritta più di quattro secoli fa, la sua forza emozionale  la rende forse più prossima a noi di quanto crediamo.

sabato 20 febbraio 2021

L'Euridice di Jacopo Peri e le origini del melodramma

La musica composta da Jacopo Peri per l'egloga pastorale Euridice di Ottavio Rinuccini rappresenta il primo melodramma che giunge a noi completo. Fu rappresentato per la prima volta nel 1600 in una stanza dei piani superiori di Palazzo Pitti a Firenze avanti ad un pubblico ristretto di 200 ospiti invitati per i festeggiamenti delle nozze di Maria de' Medici con il Re di Francia Enrico IV.

Questo primo dramma musicato interamente dall'inizio alla fine non fu comunque frutto soltanto della fantasia di Peri. Euridice nacque da oltre 25 anni di dibattito e discussione nei circoli intellettuali italiani su un certo numero di argomenti in relazione alla musica e al teatro: discussioni e dibattiti che si accentravano attorno alle idee neoplatoniche sulla natura della musica ed il suo potere di commuovere; sulla natura della musica greca antica; e sulla proprietà dei vari nuovi generi letterari crescenti alla fine del sedicesimo secolo, specialmente il dramma pastorale.

Gli intermedi che separavano i cinque atti di molte commedie divennero il genere principale della musica teatrale nell'Italia del sedicesimo secolo. Alcuni intermedi consistevano in non più di un madrigale o composizione strumentale (in cui cantanti e strumentisti si esibivano o sul palco o dietro le quinte) che segnavano semplicemente la divisione di una commedia in atti ed il passare del tempo. Quando, comunque, venivano rappresentate delle commedie per importanti eventi politici, come il matrimonio di un membro della famiglia reale, gli intermedi erano molto elaborati, ogni quadro consisteva in una o più danze, canzoni e cori. Molti di questi intermedi più elaborati possedevano un'unità tematica. Quelli per La Calandria di Bibbiena rappresentata a Lione del 1548, per esempio, in occasione della visita di Enrico II alla città, raffiguravano l'età del ferro, bronzo, argento, oro.

Nel secolo XVI, nessuna serie di intermedi fu forse più famosa o elaborata di quelli rappresentati a Firenze nel 1589 come parte delle celebrazioni per le nozze di Ferdinando de' Medici e Cristina di Lorena. Il Conte Giovanni Bardi curò la produzione e Emilio de' Cavalieri fu responsabile di selezionare la musica (composta da Cristofano Malvezzi e Luca Marenzio, ma con notevoli contributi di Peri, Antonio Archilei Bardi, Giulio Caccini e del Cavalieri stesso); le scene e i costumi furono disegnati da Bernardo Buontalenti. Bardi scelse come tema per gli intermedi del 1589 il potere della musica, un argomento che egli discuteva con i suoi amici e colleghi da quasi vent'anni.

Il tema neoplatonico dell'armonia delle sfere, e il dono finale degli dei all'umanità del ritmo e dell'armonia, incomincia gli intermedi, che includono quadri raffiguranti le rivalità fra le Muse e le Pieridi, la vittoria di Apollo sul serpente Pitone, e la storia di Airone e il delfino. Più di ogni altra serie di intermedi, quelli del 1589 mostrando a qual punto il loro effetto scenico e la loro originalità musicale oscurassero i drammi per i quali essi erano stati originariamente ideati.

Molte accademie che crebbero in Italia durante il XVI secolo discutevano di questioni letterarie. Forse non vi fu argomento più acceso tra gli intellettuali italiani delle caratteristiche dei nuovi e molteplici generi che sorsero durante il secolo, e specialmente se accettare o no nel canone letterario la nuova poesia epica di Ariosto (Orlando Furioso) e di Tasso (Gerusalemme Liberata) e il nuovo genere di dramma pastorale che cominciò con l'Aminta del Tasso (1573) e il Pastor fido del Guarini (pubblicato per la prima volta nel 1589 ma completano alcuni anni prima).

La musica giocò un ruolo importante sebbene secondario in entrambi i generi. I versi di Ariosto furono musicali o come madrigali o, nella più antica tradizione italiana della declamazione, secondo formule che prevedevano l'impiego di un gruppo ripetuto di accordi convenzionali. La musica ebbe pure un ruolo importante nel Pastor fido di Guarini, perché i pastori antichi - come gli dei - erano più portati per il canto dei comuni mortali. Ci fu anche discussione tra gli accademici de l'antica tragedia greca fosse interamente cantata. La natura della musica greca antica divenne argomento d'indagine nell'Italia del tardo secolo XVI. Vincenzo Galilei [padre del più famoso Galileo], liutista fiorentino e confidente del Bardi, per esempio, imparò ciò che sapeva della musica greca dal suo amico, l'antichista romano Girolamo Mei.

Galilei comunque, fu non tanto interessato all'esatta riproduzione della musica antica quanto ad apprendere l'abilità di commuovere la gente attraverso la musica. Si accorse che era soltanto mediante l'eliminazione del contrappunto complesso poteva riscoprire il potere affettivo della musica. Raccomandava ai compositori di tenere conto della semplicità della musica popolare e di copiare i modelli naturali del discorso, osservando attentamente come parlavano effettivamente le varie persone in differenti stati e motivi. Galilei sosteneva di essere il primo a scrivere in uno stile musicale autenticamente nuovo, musicando estratti di Dante e i Lamenti di Geremia, composizioni che sono andate perdute.

Gli intermedi fiorentini del 1589, che dipingevano in modo suggestivo il potere della musica nel modo antico, conducevano direttamente ai primi tentativi di musicare i drammi dall'inizio alla fine, poiché tutti i primi melodrammi trattano storie della mitologia in cui la musica ha un ruolo fondamentale: Dafne di Ottavio Rinuccini messa in musica (quasi tutta persa) nel 1598 da Peri con Jacopo Corsi (il successore di Bardi come leader intellettuale a Firenze), un dramma rimusicato un decennio più tardi da Marco da Gagliano; la versione di Rinuccini della favola di Orfeo musicata sia da Peri che da Caccini e una rielaborazione di Alessandro Striggio della stessa favola, musicata da Claudio Monteverdi per una rappresentazione in Mantova nel 1607.

Tutti i dibattiti, discussioni e sperimenti musicali del precedente ventennio - la consolidata tradizione degli intermedi di corte come anche i vari tentativi di musicare singole scene drammatiche e l'interesse per la natura del dramma pastorale come anche il desiderio di riscoprire l'antico potere emotivo della musica - finalmente diedero i loro frutti nei festeggiamenti di Firenze per le nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia nel 1600.

Per molti dei partecipanti l'occasione non fu comunque un successo completo. A Giulio Caccini, grande rivale di Peri alla corte fiorentina, fu commissionato di scrivere musica per la più grande delle opere da rappresentare, Il rapimento di Cefalo, del quale ci giungono solo pochi frammenti; la rappresentazione non sembra aver sollevato grande entusiasmo nel pubblico. Emilio de' Cavalieri, che curò la produzione dell'Euridice di Peri, si lamentò che le scene non fossero terminate in tempo per la rappresentazione. Il conte Bardi, prima di lasciare Firenze contrariato, ebbe da ridire sulla scelta del dramma e della musica: il soggetto, obiettò, non era adatto per un matrimonio e la musica sembrava un canto lamentoso, paragonando certamente gli eventi del 1600 con quelli che egli stesso organizzò nel 1589. Per era contrariato dal fatto che Caccini non permettesse ai propri studenti e ai membri della sua famiglia, che partecipavano alle celebrazioni, di cantare la musica da egli composta, così la prima rappresentazione di Euridice effettivamente miscelava passaggi di entrambi i compositori. Tantomeno Peri poteva essere pago del fatto che successivamente Caccini compose la musica per il resto del dramma e affrettò la stampa della sua versione dell'opera completa prima che peri potesse fare altrettanto.

Il pubblico nel 1600 non avrebbe potuto capire quanto significativi per la storia della musica sarebbero stati gli eventi di cui erano testimoni. È soltanto oggi che apprezziamo l'Euridice di Peri, riconoscendone tutta la valenza musicale e teatrale. La sua forza dipende non poco dal fatto che è un'opera da camera relativamente breve, ideata per la rappresentazione in una piccola stanza ed eseguita per un ristretto pubblico di conoscitori.

All'interno delle cinque brevi scene dell'opera, Peri riuscì a creare una ricca varietà di musica che è sempre responsabile delle dinamiche del dramma. Non è affatto giusto considerare questa come un'opera che procede con recitativo interrotto - il recitar cantando - dall'inizio alla fine. Ciascuna scena chiude con un coro formato secondo i canoni dei vecchi intermedi. I cori variano dalla gioiosa canzone danzata in celebrazione delle imminenti nozze di Orfeo ed Euridice al termine della scena iniziale ("Al canto, al ballo"); al lamento pietoso per la morte di Euridice ("Sospirate, aure celesti") che chiude la seconda scena; la quasi-danza, canzone della speranza ("Se de' boschi i verdi onori") che chiude la terza scena, e l'eco del coro d'atmosfera degli dei nell'Inferno ("Poi che gl'eterni imperi") che termina la quarta scena.

Il Cavalieri indubbiamente creò l'elaborato finale ("Biond'arcier, che d'alto monte") in imitazione del finale che ideò per gli intermedi del 1589. Entrambi furono ballati e cantati da cori in cinque parti che alternavano tre parti strumentali e interludi vocali. Inoltre, Peri interruppe due volte il fluido dialogare del recitato con semplici canzoni strofiche: nel pur ardor del contadinotto Tirsi nella seconda scena, un incantevole interludio rustico ed ingenuo che da forte risalto al successivo racconto della morte di Euridice cantato da Dafne, e l'esultante Gioite al canto mio di Orfeo, le prime parole che pronuncia al suo ritorno dall'inferno con l'amata Euridice.

Anche all'interno dei confini del recitativo semplice, che possiamo immaginare musicalmente limitati, Peri fece una netta distinzione tra le conversazioni relativamente neutre tra le ninfe e i pastori e gli altri punti emotivi dell'opera, che egli, in modo appropriato e caratteristico, compose come recitativo: il racconto accorato di Dafne circa la morte di Euridice, Per quel vago boschetto; il lamento di Orfeo, Non piango e non sospiro, che va dallo sgomento attraverso il dolore alla ferma risoluzione di raggiungere la sua amata; la supplica di Orfeo davanti alle porte dell'Inferno, Funeste piagge, con il ritornello Lacrimate al mio pianto, ombre d'Inferno, il canto con cui riconquista Euridice. 

Ogni rappresentazione dell'Euridice di Peri deve essere necessariamente unica, perché il compositore, seguendo le consuetudini del suo tempo, non fornì le istituzioni a noi necessarie per conoscere precisamente ciò che intendeva, o cosa fu fatto nel 1600. Non sappiamo neppure per certo quali strumenti accompagnarono i cantanti nella prima rappresentazione. Nella prima edizione dell'opera Peri stampò soltanto le linee del canto, un accompagnamento del basso, e in alcuni casi per strumenti melodici non specificati. Nella sua prefazione, Peri nominò soltanto alcuni dei suoi amici aristocratici o di buona famiglia e mecenati che presero parte alla prima. Jacopo Corsi suonò il clavicembalo, il Signor Don Grazia Monralvo la tiorba, Giovan Battista Jacomelli, chiamato "dal violino" a causa del suo grande talento violinistico, suonò un lirone a più corde e Giovanni Lapi un grande liuto.

Ci devono essere stati altri strumenti, comunque, in quel piccolo ensemble che accompagnò i cantanti di Euridice, probabilmente un paio di violini o flauti oppure entrambi per suonare i ritornelli nel Prologo, quelli nella canzoni di Tirsi intesi per imitare i flauti di Pan, e quelli nel gran finale. Il fatto che il compositore mancò di dare una precisa strumentazione per l'opera (tantomeno delle precise indicazioni circa gli altri aspetti della rappresentazione) suggerisce che egli desiderava lasciare ai musicisti ampia libertà di adattare le loro esecuzioni a seconda delle esigenze individuali e dell'acustica dell'ambiente, della disponibilità di un gruppo specifico di strumenti, del gusto e delle caratteristiche individuali dei cantanti. Peri evidentemente comprese che due rappresentazioni non dovevano e non potevano essere esattamente uguali, ed egli rispettò i desideri dei musicisti per i quali l'edizione era ideata per cogliere gli impulsi creativi del momento, quegli impulsi che danno vivacità e vitalità ad una rappresentazione. 

Non è soltanto la rappresentazione di Euridice, comunque che è e deve essere unica. L'opera stessa è unica. Peri fu il primo ad affrontare gli stessi problemi estetici, drammatici e musicali di ogni altro compositore nella storia della musica. Le sue sue soluzioni nel creare un'opera da camera squisita e commovente, comunque, non furono realmente seguite (né potevano esserlo) dai compositori successivi. Sensibile ad ogni sfumatura del libretto di Rinuccini, Peri scrisse una musica che rispecchiava la retorica delle parole e nel contempo incorporava il loro contenuto affettivo. Attraverso la sua musica, il compositore ha stabilito una lettura del dramma che rivela pienamente il suo potere e motivo.

(Tratto dall'articolo inserito nel libretto allegato al cofanetto Peri - L'Euridice - Art)

martedì 16 febbraio 2021

Recensioni discografiche: "L'Euridice" di Jacopo Peri


Un archetipo, eppure un unicum. La restituzione odierna dell'Euridice richiede innanzi tutto la comprensione di questo paradosso. Come modello - nel quale confluiscono i risultati di molte ricerche espressive, dalle teorie musicali della "prima camerata" ai dibattiti cruscanti ed a quelli sulla poetica aristotelica, dalle nuove forme del teatro parlato alle varie realizzazioni dello "stile rappresentativo" - l'Euridice trasmette alla nuova età musicale l'esperienza di un inedito intreccio di musica, coreografia, scenografia e testo letterario, in cui comunque il primato emotivo spetta a quest'ultimo e in cui pertanto l'invenzione musicale è essenzialmente funzione dell'invenzione drammatica. 

Nell'archetipo Peri e Rinuccini formulano e realizzano tale poetica con un particolare rigore; ma da questo punto di vista l'interpretazione dell'Euridice non pone problemi di metodo diversi da ogni plausibile restituzione moderna dei melodrammi secenteschi: non si può prescindere da quella peculiare unità e gerarchia espressiva, non si può privilegiare e autonomizzare  il dato musicale, sotto pena di mistificare le intenzioni poetiche, di mortificare e disperdere valori artistici essenziali dell'Opera. L'edizione discografica ovviamente deve rassegnarsi alla propria incongrua parzialità. E almeno è tuttavia possibile avocare una più comprensiva dimensione teatrale se il canto, liberandosi dai modelli sedimentati da culture musicali eterogenee, ricopre nella recitazione del testo poetico il proprio fine e le proprie regole. E questo innanzi tutto vuol dire, secondo il dettato di Peri e Rinuccini, piena adesione del canto alle norme fonetiche e prosodiche della "nostra favella": un compito artistico che naturalmente riserva speciali possibilità e responsabilità agli interpreti italiani.

D'altro lato a partire da questo comune codice espressivo, il melodramma secentesco esalta le differenze di concezioni estetiche e di sensibilità artistica, ponendo all'interpretazione problemi non eludibili di comprensione storica e teorica e di individuazione stilistica. Appunto in questo senso l'Euridice costituisce un unicum, non riducibile alla tradizione musicale che per altri versi inaugura così come è irriducibile alle sue fonti. Significativamente non solo Giovanni Bardi disapprova la creazione della "seconda camerata", ma anche Cavalieri, Monteverdi e Caccini dissentono, rilevandone l'austerità liturgica. In Effetti l'Euridice è rito catartico: tragedia, aristotelicamente. Tragedia cinquecentesca, però, esplicitamente innovata non solo nei modi ma anche nella destinazione: catarsi rivolta non più "negl'ampi teatri al popol folto", ma celebrata per la commozione e persuasione del Principe, del Potere. 

Con tale torsione oratoria Peri e Rinuccini reinventano il mito di Orfeo, come allegoria della virtù persuasiva del canto, della sua vittoria umanistica sulla necessità e sulla legge. In questo l'Euridice non ha continuatori nel suo secolo. Se infatti, come si ripete volentieri, nel mito di Orfeo tante volte rivisitato "il melodramma celebra se stesso", esso però non celebra sempre i medesimi valori, la stessa immagine di sé. L'Orfeo di Monteverdi e Belli, di Landi e Rossi ammansisce le fiere, ma è inerme di fronte ai crudeli inganni di un Potere capriccioso e subdolo, incomprensibile e inavvicinabile e il suggello della sconfitta - poiché "nulla quaggiù diletta e dura" - è l'apoteosi consolatoria di un Gelo cristallizzato. Se Orfeo è comunque simbolo dell'inaudita grandezza e ricchezza del melodramma, qui è anche simbolo della servitù e miseria dell'artista. 

L'interpretazione non può ignorare questa differenza dell'Euridice, nata non dalle incombenze servili e dalle pie ansie del musico cortigiano, ma dalle orgogliose nostalgie umanistiche di un circolo aristocratico e dalle speranze di palingenesi incoraggiate da un grande evento dinastico, i "regi imenei" di Maria de' Medici, ai quali l'opera fu offerta. Si concludeva allora un decennio terribile nel processo dell'annessione di politica ed etica, filosofia ed arte alla giurisdizione della Controriforma: un decennio che trovava conclusione e simbolo nel rogo di Giordano Bruno. Alla "camerata" di Jacopo Corsi - mecenate, ma anche capo di una lobby cautamente dissenziente dalla tradizione politica del granducato - l'accostamento diplomatico ad Enrico di Borbone, il re della pacificazione religiosa, appare come il pegno di un profondo rinnovamento del regime mediceo, del suo riscatto dai paradigmi controriformisti di devozione e di governo garantiti dalla pax hispanica. Sovvertendo i moduli esomativi ed encomiastici dell'accademismo fiorentino - compreso il platonizzato simbolismo cortigiano degli intermedi officiati da Giovanni Bardi - l'Euridice trasfigura queste speranze di palingenesi nel mito classico, nell'allegoria polemica dell'artista persuasore, trionfante su un Potere "nudo d'ogni pietà". Una breve utopia, certamente. Di lì a poco Rinuccini affiderà ad un'altra "tragedia" - Arianna, per Monteverdi - l'ammissione che nulla possono le ragioni del cuore contro la Ragion di Stato. Ma intanto il sogno umanistico innerva le scelte espressive dell'Euridice, dettando ulteriori condizioni all'interpretazione. 

Si tratta infatti di restituire adeguatamente il nesso linguistico tra la poetica del "recitar cantando" e le peculiari ragioni estetiche dell'Euridice: il paganesimo sereno e senza residui dell'allegoria, immune dalle dolenti ambiguità devote dell'Orfeo monteverdiano; l'apollinea trasparenza razionale, che esclude troppo morbide coloriture psicologiche; la spoglia essenzialità degli sviluppi drammatici, senza concessioni alle varianti dionisiache del mito e alla moltiplicazione spettacolare di episodi e personaggi, cui indulgeranno le rivisitazioni secentesche. Tutto ciò trova la propria cifra stilistica in un controllato classicismo lontano dai turgori controriformisti del manierismo e dalle esorbitanti meraviglie dell'edonismo barocco, evocatore piuttosto delle sobrie eleganze letterarie e figurative di un umanesimo profano remoto ma non dimenticato. Alla ricerca di un nuovo modulo espressivo umanisticamente privilegiante la parola. Peri crea, nell'ambito del "recitar cantando", il proprio, peculiare linguaggio musicale, il cui fine esplicito è di "imitar col canto chi parla".

Se infatti da una parte l'artificioso alternarsi contrappuntistico di consonanze e dissonanze si mostrava del tutto inadeguato ad una naturale rappresentazione dei sentimenti, dall'altro neanche risultavano adeguate, per la loro coercitiva verticalità, le ditonali soluzioni armoniche adottate, per esempio, da Caccini. È invece ad una melodia di stampo monodico tetracordale che Peri, epigono delle teorie di Vicentino, Galilei, Bottrigari, affida la realizzazione dell'Euridice. Una melodia egemone del discorso musicale e in assoluta funzione degli "affetti" espressi dal testo, ai quali vengono sovente sacrificati anche l'unità e gli accenti del verso - al contrario di quanto avviene nell'Euridice di Caccini - con la frammentazione dell'endecasillabo in settenario e quinario e viceversa.

A questa misura stilistica ho cercato di attenermi nell'interpretazione dell'opera: sobria realizzazione del "continuo", sempre e comunque in funzione della melodia,  giacché, come ammonisce il Corago, "per lo stile musico fa più bisogno l'aggiustata modulazione che la ripiena armonia"; una misurata libertà ritmica giustificata dalla particolare ricerca semiografica periana - si pensi, ad esempio, al frequente impiego dell'anacrusi nei movimenti di maggior tensione drammatica. Ho inoltre evitato l'uso - che sarebbe stato arbitrario rispetto alla poetica dell'Euridice - di strumenti "alti" interagenti con le voci: con la sola deroga del flauto introdotto in funzione drammatica in "Et ceco un lamp'ardente".

Infine, secondo una libertà d'altra parte autorizzata dalle fonti (Peri, Marco da Gagliano), ho limitato la reiterazione dei ritornelli strumentali nel prologo e nel coro e ballo finale - una reiterazione dettata da Peri per ragioni coreografiche qui ovviamente assenti.

(Roberto de Caro, L'Euridice: linee di un'interpretazione, articolo inserito nel libretto allegato al cofanetto Peri - L'Euridice - Art)

domenica 14 febbraio 2021

Recensioni discografiche: Claudio Abbado sul "Don Carlos" di Verdi

"La prima volta che diressi Don Carlos, a Londra nel 1968, iniziai a provare dal quinto atto. Ma la parte precedente terminava con la morte di Posa: niente Sommossa. Si dovette modificare in tutta fretta la regia, aggiungendo un quadro allo spettacolo di Luchino Visconti e insegnando la parte musicale al coro. Fu un incontro esecutivo imprevisto a una partitura studiata a fondo."

L'episodio curioso ricordato da Claudio Abbado durante le sedute di registrazione si presta a una serie di congetture. Scandisce la lunga marcia del direttore che realizza ora l'integrale di Don Carlos, ne indica le principali tappe in teatro - c'è da aggiungere la prima edizione della Scala nello stesso 1968 (ma secondo lo spartito in quattro atti) e l'altra nel 1977, nella versione in cinque atti e con l'inserimento di una serie di brani (seppure in traduzione italiana) che erano stati composti per la versione originale di Parigi - suggerisce mediazioni sul gusto musicale e interpretativo di Abbado, particolarmente sensibile ai problemi di completezza e di rispetto del segno. E di riallaccia all'episodio storico: secondo le testimonianze dell'epoca infatti il baritono Faure, primo Posa della storia, pur non pretendendo che il sipario della Scena del carcere calasse dopo la sua morte in modo da raccogliere tutti gli applausi possibili ed esclusivi, tuttavia sollecitò Verdi ad alleggerire il finale, togliendo lo straordinario Concertato "Qui me rendra ce mort" precedente la fulminea Sommossa.

Il Concertato è tra i sette numeri inseriti come appendice [n. 5] in questa registrazione. "Al di là dello squisito fatto musicale" - ricorda Abbado - "il compianto di Filippo costituisce una rappresentazione vivida, anche sotto il profilo drammaturgico, dell'inedito ruolo politico e personale guadagnato da Posa". E realizza, secondo noi, insieme al duetto con Posa del secondo atto e il soliloquio del quarto, il completamento di una terna perfettamente simmetrica cui è affidato il culmine del ritratto umano e regale di Filippo. Tre momenti così profondi e intimi a causa dei quali Verdi, come Posa, potrebbe venire ripreso dal re: "Votre regard hardi s'est levé sur mon trône". 

"La statura umana di Filippo ci tocca, quella regale ci fa soprattutto pensare", aggiunge Abbado: "il doppio versante su cui corre l'opera non può essere dimenticato o disatteso. La componente umana - sia essa amorosa, dolentemente paterna o immacolata del sentimento d'amicizia - non deve temperare il clima fortemente politico, anzi acuirlo nel contrasto. l'apparente meccanicità di certe azioni e prese di posizione è invece logica vista nel contesto della rappresentazione di potere: quello visibile di Filippo e quello tremendo, non sempre svelato, dell'Inquisizione".

Potere imperioso già in partenza. Elisabetta e la tradita promessa matrimoniale sono le prime vittime del disumano accordo regale. Ma la Ragion di Stato non si discute. Semmai, "col recupero del quadro iniziale [appendice n. 1] che descrive lo stato miserando della popolazione francese, e quindi giustifica politicamente il "prezzo" della pace, il sacrificio di Elisabetta appare meno immotivato e cinico."

Questa scena insostituibile è importante perché introduce, subito, il caratteristico motivo musicale cifrato da quel disegno dell'appoggiatura che rivestirà un ruolo molto importante nel corso di tutta la partitura; una specie di Leitmotiv per i momenti dolorosi, destinato all'amplificazione più vistosa e drammaticamente espressiva nell'inquieta aurora di Filippo, solo nello studio. Ragione di Stato, Ragione di Chiesa: due Stati contrapposti, due centri di potere sottolineati ancori più dal fatto che sono stati  reintegrati quei brani a suo tempo espunti da Verdi, ed ora peraltro maggiormente valorizzati nella lingua originale francese.

"Non ci sono dubbi - conferma Abbado - se il quadro iniziale mette in primo piano il retroscena politico dell'azione, l'Orazione funebre di Filippo sul corpo del Duca di Posa, col suo carico di autorità ferita e di sincero rimpianto, è un atto d'accusa tremendo contro lo strapotere dell'Inquisizione; istituzione terribile, descritta ancora con molta evidenza - come una belva che bracca gli infelici amanti - nel finale originario [appendice n. 6]".

"Lo stesso libretto originale rileva con più precisione della traduzione italiana la volontà verdiana di sottolineare le situazioni. Ad esempio nel grande quadro dell'auto-da-fé l'autorità morale e civile cui Filippo fa riferimento nell'invettiva da lui rivolta ai legati fiamminghi viene così espressa in francese: 'A Dieu vous êtes infidèles, infidèles à votre Roi.' Ciò non è nemmeno paragonabile con l'ambiguità dell'italiano 'infidi', che non contiene il senso forte della denuncia politica-religiosa lanciata contro ribelli civili da esorcizzare come potenziali eretici".

Ora che è stata restituita integralmente la versione originale parigina, perché non registrare qui tutta quella versione? Secondo Abbado l'operazione critico-storica non si giustifica esecutivamente: "mi è parso doveroso il recupero di quei pezzi forzatamente esclusi dalla partitura della prima e degni di essere conosciuti. Quanto al resto è giusto eseguire la musica nella sua ultima versione: dove Verdi ha messo le mani, ha lasciato un segno profondo. Non ha senso ignorare tutta una serie di sostanziali miglioramenti".

D'altra parte l'edizione presente è inedita per altri motivi. "lo studio comparato tra le varie versioni ha permesso di correggere molti errori tramandati alla partitura moderna: errori minimi, inavvertibili da parte di chi ascolta ma significativi. Soprattutto nella minutissima scrittura orchestrale e in quella espressiva che concerne le parti vocali e che costituisce di per sé la prima nitidissima lettura drammaturgica verdiana del libretto". 

"Tra i cambiamenti più evidenti l'assolo di violoncello che prelude la scena del soliloquio di Filippo. Non esiste nel manoscritto: contrariamente a quanto si pensa (e s'è sempre eseguito) quella frase fu destinata da Verdi a tutta la fila. Oppure nella sezione finale dell'atto primo la frase drammatica di Don Carlo ed Elisabetta ('L'heure fatale est sonnée!') è affidata alternativamente, e identica, ai protagonisti con effetto di maggiore smarrimento emotivo, non lasciata a Elisabetta ('L'ora fatale è sonata/contro la sorte spietata') come siamo abituati a sentire". [...] Se la tragedia dell'ora fatale è totale, rende esausti prima che agghiacciati o rabbiosi, la frenesia sensuale e sottile del duetto che la precede ci contagia. Il direttore se ne bea, ammorbidisce gesto e suono, chiede languore e precipitazione a Plácido Domingo e Katia Ricciarelli che cantano col viso accostato. Al colmo del desiderio e dell'esaltazione ("dans le basier des fiançailles") quel "poco rubato sulle terzine" chiesto da Abbado a tutti rende palpabile la magia dell'indimenticabile e non più rinnovabile estasi tra due esseri vergini d'amore e destinati a esserlo per l'esistenza.  "[...] la tragedia suona terribile quanto più l'amore tra i due giovani ci sembra remoto. Inafferrabile". Come l'uomo che cerca Filippo - forse si accontenterebbe di esserlo lui, fino in fondo - come l'utopia politica di Don Carlo e Rodrigo, come il potere che la splendida amante del re [Eboli] crede di avere, come la Francia serena della fanciullezza vagheggiata dalla triste adolescente ora regina Elisabetta, sposa più triste ancora.

"Nous avons fait tous deux un rêve étrange" (atto III), Claudio Abbado è d'accordo. Anche se relativa a un momento e a personaggi diversi, potrebbe essere la frase che racchiude il segreto di quel volatile eppur definitivo amore. Ma se l'immagine viene proiettata altrove e alla parola sogno sostituiamo potere o aspirazione o utopia, tutto il meccanismo drammaturgico dell'opera vi si assoggetta.

(Dall'articolo omonimo contenuto nel libretto allegato al cofanetto Giuseppe Verdi - Don Carlos, della Deutsche Grammophon)

sabato 13 febbraio 2021

Armonia (Lezione 2): La scala diatonica maggiore


La distanza che intercorre fra due suoni di diversa altezza è detta intervallo: quando due suoni sono emessi contemporaneamente, l'intervallo è detto armonico; quando i due suoni sono emessi in successione, l'intervallo si dice melodico.


Nell'armonia tonale, l'unità di misura dell'intervallo è il tono (T). Suo sottomultiplo è il semitono (S), cioè la metà di un tono, l'intervallo più piccolo del nostro sistema armonico.


Una melodia è composta da una successione di toni, semitoni ed altri intervalli più grandi, a seconda del gusto del compositore. Il moto melodico si dice per grado congiunto, quando le note si susseguono entro un intervallo non superiore a una seconda (es. DO-RE).


Si dice invece per grado disgiunto quando i suoni si susseguono saltando per intervalli più grandi di una seconda (es. SOL-MI).


Una successione melodica che sale o scende in una sola direzione per moto congiunto è comunemente detta scala. La scala che sta alla base dell'armonia tonale è la cosiddetta scala diatonica maggiore, che risponde a particolari caratteristiche.


Esiste una seconda scala diatonica, detta minore, che prende le mosse da quella maggiore, ma che vedremo meglio in seguito.


Come già anticipato nella Lezione 1, la nota fondamentale di un sistema di armonici può a sua volta essere armonico di un altro sistema: avevamo così isolato, attorno ad una fondamentale DO, altre due note ad essa strettamente legate, il SOL e il FA. Il DO del nostro esempio diviene infatti il punto di convergenza di tutte le spinte centrifughe comuni ai tre sistemi. La scala quindi nasce dalla commistione di questi tre sistemi e dal "riordino" dei suoni armonici secondo la tipica sequenza scalare che tutti conosciamo. 


Questa sequenza si caratterizza per una particolare disposizione dei toni e dei semitoni al suo interno ed è da essa che scaturisce quell'equilibrio interno che ci fa percepire la scala come un insieme ordinato di suoni. Tale sequenza è la seguente: T T S T T T S.


Se al posto del DO, come nell'esempio, facessimo partire la scala dal RE, la sequenza dei toni e dei semitoni risulterebbe sfalsata: T S T T T S T.


Pertanto, pur essendo nota di partenza, questo RE non è in grado di porsi come centro tonale forte, così come accade invece per il DO. Questo perché il rapporto fra i vari suoni della scala non rispetta gli equilibri assicurati invece dalla sequenza T T S T T T S. Ne consegue che, per ristabilire questi equilibri, sarà necessario "aggiustare" alcune note, applicandovi delle alterazioni. Esse si intervengono qualora fra una nota della scala e l'altra non intercorra l'intervallo che dovrebbe invece esserci in quel determinato punto. 

Secondo lo schema, dunque, fra la prima e la seconda nota deve intercorrere un tono. Con il RE come nota di partenza, notiamo che fra essa e il MI questa distanza è rispettata. Ne consegue che in questo punto non vanno applicate alterazioni.


Anche fra la seconda e la terza dovrebbe esserci un tono intero: invece, notiamo subito che fra MI e FA c'è solo un semitono. 


Siamo dunque in difetto di un ulteriore semitono che sommato al primo dia un tono. Ed è proprio qui che interviene l'alterazione, allargando il divario fra le due note. Non potendo agire sul MI, in quanto già in rapporto di un tono con il RE sottostante, sarà necessario intervenire sul FA, che verrà alzato di un semitono con l'aggiunta di un (diesis).


Il FA cesserà quindi di essere tale e prenderà il nome di FA diesis, dato che si tratta di una vera e propria altra nota.

Questo procedimento si ripeterà anche per tutte le note successive, intervenendo a correggere tutti quegli intervalli che non dovessero risultare conformi alla sequenza della scala maggiore. Nello specifico di RE maggiore, un'altra nota, oltre al FA, necessita di essere modificata: il DO, che alterato diventa DO diesis.


Di seguito, la scala di RE maggiore corretta:


Se prendessimo invece ad esempio una scala che parta dal FA senza alterazioni, la sequenza non corretta risulterebbe: T T T S T T S. 


In questo caso, l'alterazione andrà applicata sul SI, in quanto fra esso e il LA sottostante intercorre un tono e non il semitono che invece dovrebbe esserci.


In questo caso, siamo dunque in eccesso di un semitono, che verrà sottratto abbassando il SI con l'aggiunta di un (bemolle). 


Di seguito, la scala di FA maggiore corretta:


In conclusione, le scale possono avere sequenze di note differenti (DO maggiore: do, re, mi, fa, sol, la, si, do; RE maggiore: re, mi, fa, la, si do♯ etc...) ma la medesima struttura. Pertanto, come nell'algebra si usano le lettere per designare in termini generali qualsiasi numero, le note della scala vengono dette generalmente gradi. I gradi vengono contati con i numeri ordinali (primo grado, secondo grado, terzo grado etc...) e indicati con i numeri romani corrispondenti (I, II, III etc...). Il grado permette di parlare dei singoli componenti della scala indipendentemente dalla nota che riveste quel grado. Il I grado è quello che dà il nome anche alla scala: nel caso di DO maggiore, il I grado sarà dunque il DO, in RE maggiore il RE etc... Quella stessa nota, però, può anche comparire in altre scale come grado diverso dal I: nella scala di FA maggiore, per esempio, la nota DO compare come V grado. Ciò spiega la versatilità di utilizzare i gradi senza tutte le volte specificare di che nota si tratta, evitando confusione e permettendo così di parlare delle caratteristiche della scala in senso generale, dato che le sue dinamiche sono le medesime qualunque siano le note che la compongono. Inoltre, come vedremo meglio in seguito, ogni grado ha una sua funzione armonica ben definita e, in base ad essa, anche un suo nome preciso.

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