martedì 16 febbraio 2021

Recensioni discografiche: "L'Euridice" di Jacopo Peri


Un archetipo, eppure un unicum. La restituzione odierna dell'Euridice richiede innanzi tutto la comprensione di questo paradosso. Come modello - nel quale confluiscono i risultati di molte ricerche espressive, dalle teorie musicali della "prima camerata" ai dibattiti cruscanti ed a quelli sulla poetica aristotelica, dalle nuove forme del teatro parlato alle varie realizzazioni dello "stile rappresentativo" - l'Euridice trasmette alla nuova età musicale l'esperienza di un inedito intreccio di musica, coreografia, scenografia e testo letterario, in cui comunque il primato emotivo spetta a quest'ultimo e in cui pertanto l'invenzione musicale è essenzialmente funzione dell'invenzione drammatica. 

Nell'archetipo Peri e Rinuccini formulano e realizzano tale poetica con un particolare rigore; ma da questo punto di vista l'interpretazione dell'Euridice non pone problemi di metodo diversi da ogni plausibile restituzione moderna dei melodrammi secenteschi: non si può prescindere da quella peculiare unità e gerarchia espressiva, non si può privilegiare e autonomizzare  il dato musicale, sotto pena di mistificare le intenzioni poetiche, di mortificare e disperdere valori artistici essenziali dell'Opera. L'edizione discografica ovviamente deve rassegnarsi alla propria incongrua parzialità. E almeno è tuttavia possibile avocare una più comprensiva dimensione teatrale se il canto, liberandosi dai modelli sedimentati da culture musicali eterogenee, ricopre nella recitazione del testo poetico il proprio fine e le proprie regole. E questo innanzi tutto vuol dire, secondo il dettato di Peri e Rinuccini, piena adesione del canto alle norme fonetiche e prosodiche della "nostra favella": un compito artistico che naturalmente riserva speciali possibilità e responsabilità agli interpreti italiani.

D'altro lato a partire da questo comune codice espressivo, il melodramma secentesco esalta le differenze di concezioni estetiche e di sensibilità artistica, ponendo all'interpretazione problemi non eludibili di comprensione storica e teorica e di individuazione stilistica. Appunto in questo senso l'Euridice costituisce un unicum, non riducibile alla tradizione musicale che per altri versi inaugura così come è irriducibile alle sue fonti. Significativamente non solo Giovanni Bardi disapprova la creazione della "seconda camerata", ma anche Cavalieri, Monteverdi e Caccini dissentono, rilevandone l'austerità liturgica. In Effetti l'Euridice è rito catartico: tragedia, aristotelicamente. Tragedia cinquecentesca, però, esplicitamente innovata non solo nei modi ma anche nella destinazione: catarsi rivolta non più "negl'ampi teatri al popol folto", ma celebrata per la commozione e persuasione del Principe, del Potere. 

Con tale torsione oratoria Peri e Rinuccini reinventano il mito di Orfeo, come allegoria della virtù persuasiva del canto, della sua vittoria umanistica sulla necessità e sulla legge. In questo l'Euridice non ha continuatori nel suo secolo. Se infatti, come si ripete volentieri, nel mito di Orfeo tante volte rivisitato "il melodramma celebra se stesso", esso però non celebra sempre i medesimi valori, la stessa immagine di sé. L'Orfeo di Monteverdi e Belli, di Landi e Rossi ammansisce le fiere, ma è inerme di fronte ai crudeli inganni di un Potere capriccioso e subdolo, incomprensibile e inavvicinabile e il suggello della sconfitta - poiché "nulla quaggiù diletta e dura" - è l'apoteosi consolatoria di un Gelo cristallizzato. Se Orfeo è comunque simbolo dell'inaudita grandezza e ricchezza del melodramma, qui è anche simbolo della servitù e miseria dell'artista. 

L'interpretazione non può ignorare questa differenza dell'Euridice, nata non dalle incombenze servili e dalle pie ansie del musico cortigiano, ma dalle orgogliose nostalgie umanistiche di un circolo aristocratico e dalle speranze di palingenesi incoraggiate da un grande evento dinastico, i "regi imenei" di Maria de' Medici, ai quali l'opera fu offerta. Si concludeva allora un decennio terribile nel processo dell'annessione di politica ed etica, filosofia ed arte alla giurisdizione della Controriforma: un decennio che trovava conclusione e simbolo nel rogo di Giordano Bruno. Alla "camerata" di Jacopo Corsi - mecenate, ma anche capo di una lobby cautamente dissenziente dalla tradizione politica del granducato - l'accostamento diplomatico ad Enrico di Borbone, il re della pacificazione religiosa, appare come il pegno di un profondo rinnovamento del regime mediceo, del suo riscatto dai paradigmi controriformisti di devozione e di governo garantiti dalla pax hispanica. Sovvertendo i moduli esomativi ed encomiastici dell'accademismo fiorentino - compreso il platonizzato simbolismo cortigiano degli intermedi officiati da Giovanni Bardi - l'Euridice trasfigura queste speranze di palingenesi nel mito classico, nell'allegoria polemica dell'artista persuasore, trionfante su un Potere "nudo d'ogni pietà". Una breve utopia, certamente. Di lì a poco Rinuccini affiderà ad un'altra "tragedia" - Arianna, per Monteverdi - l'ammissione che nulla possono le ragioni del cuore contro la Ragion di Stato. Ma intanto il sogno umanistico innerva le scelte espressive dell'Euridice, dettando ulteriori condizioni all'interpretazione. 

Si tratta infatti di restituire adeguatamente il nesso linguistico tra la poetica del "recitar cantando" e le peculiari ragioni estetiche dell'Euridice: il paganesimo sereno e senza residui dell'allegoria, immune dalle dolenti ambiguità devote dell'Orfeo monteverdiano; l'apollinea trasparenza razionale, che esclude troppo morbide coloriture psicologiche; la spoglia essenzialità degli sviluppi drammatici, senza concessioni alle varianti dionisiache del mito e alla moltiplicazione spettacolare di episodi e personaggi, cui indulgeranno le rivisitazioni secentesche. Tutto ciò trova la propria cifra stilistica in un controllato classicismo lontano dai turgori controriformisti del manierismo e dalle esorbitanti meraviglie dell'edonismo barocco, evocatore piuttosto delle sobrie eleganze letterarie e figurative di un umanesimo profano remoto ma non dimenticato. Alla ricerca di un nuovo modulo espressivo umanisticamente privilegiante la parola. Peri crea, nell'ambito del "recitar cantando", il proprio, peculiare linguaggio musicale, il cui fine esplicito è di "imitar col canto chi parla".

Se infatti da una parte l'artificioso alternarsi contrappuntistico di consonanze e dissonanze si mostrava del tutto inadeguato ad una naturale rappresentazione dei sentimenti, dall'altro neanche risultavano adeguate, per la loro coercitiva verticalità, le ditonali soluzioni armoniche adottate, per esempio, da Caccini. È invece ad una melodia di stampo monodico tetracordale che Peri, epigono delle teorie di Vicentino, Galilei, Bottrigari, affida la realizzazione dell'Euridice. Una melodia egemone del discorso musicale e in assoluta funzione degli "affetti" espressi dal testo, ai quali vengono sovente sacrificati anche l'unità e gli accenti del verso - al contrario di quanto avviene nell'Euridice di Caccini - con la frammentazione dell'endecasillabo in settenario e quinario e viceversa.

A questa misura stilistica ho cercato di attenermi nell'interpretazione dell'opera: sobria realizzazione del "continuo", sempre e comunque in funzione della melodia,  giacché, come ammonisce il Corago, "per lo stile musico fa più bisogno l'aggiustata modulazione che la ripiena armonia"; una misurata libertà ritmica giustificata dalla particolare ricerca semiografica periana - si pensi, ad esempio, al frequente impiego dell'anacrusi nei movimenti di maggior tensione drammatica. Ho inoltre evitato l'uso - che sarebbe stato arbitrario rispetto alla poetica dell'Euridice - di strumenti "alti" interagenti con le voci: con la sola deroga del flauto introdotto in funzione drammatica in "Et ceco un lamp'ardente".

Infine, secondo una libertà d'altra parte autorizzata dalle fonti (Peri, Marco da Gagliano), ho limitato la reiterazione dei ritornelli strumentali nel prologo e nel coro e ballo finale - una reiterazione dettata da Peri per ragioni coreografiche qui ovviamente assenti.

(Roberto de Caro, L'Euridice: linee di un'interpretazione, articolo inserito nel libretto allegato al cofanetto Peri - L'Euridice - Art)

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