domenica 27 dicembre 2020

Edizioni musicali: Bach - 389 Choralgesänge für vierstimmigen gemischten Chor (Breitkopf und Härtel)

Pubblicata per la prima volta nel 1912 da Breitkopf und Härtel a cura di Bernhard Friedrich Richter, questa raccolta dei corali di Johann Sebastian Bach impaginati su rigo per pianoforte è diventata un classico delle edizioni musicali, ancora oggi continuamente ristampata sostanzialmente senza modifiche particolari rispetto alla prima edizione. 

Questa collezione contiene tutti i corali con o senza gli strumenti obbligati, esattamente come si possono trovare nell'edizione della Bachgesellschaft. Sono stati esclusi solamente i corali figurati e quelli che contengono grandi interludi strumentali. L'unico corale figurato contenuto nella collezione, il n. 199, "Weg, weg mit allen Schätzen", è stato incluso perché appartiene all'insieme dei corali basati sul mottetto "Jesu meine Freude". Similmente, il numero 259, "Nun danket alle Gott", è stato inserito nonostante i suoi piccoli interludi strumentali a motivo della sua versatilità. 

I corali sono stati catalogati in ordine alfabetico a seconda del titolo originario della melodia e non in base al testo del corale stesso. Ciò significa che per ogni melodia avremo un solo titolo sotto i quali vengono elencati tutti i corali ad essa collegati, a differenza di quanto accade in altre edizioni dove corali con una stessa melodia si trovano in ordine sparso a causa del diverso titolo suggerito dal testo.

Le fonti principali della maggior parte dei corali, duecentoquattro, sono le cantate, gli oratori, le passioni e i mottetti di Bach. I restanti centottantacinque sono tratti invece dall'edizione degli inni per coro a quattro voci che il figlio Carl Philipp Emanuel raccolse negli anni 1784-87, in seguito pubblicati insieme nel volume XXXIX della Bach-Ausgabe.

Raccolta che rende accessibile a tutti i musicisti le grandi pagine corali di Bach, grazie alla sua impaginazione per strumento a tastiera, essa si rivelerà uno strumento utile per tutti coloro che si accostano allo studio e all'analisi di queste piccole ma fondamentali composizioni, che hanno cambiato per sempre il corso della storia musicale.



sabato 26 dicembre 2020

Le scale musicali al pianoforte: scale di FA e di SI minore (un'ottava)

Similmente alle loro omologhe maggiori, anche le scale di FA e di SI minore cominciano ad avere delle variazioni nella diteggiatura rispetto a quelle viste finora. 

Per quanto riguarda la scala di FA minore, che essendo relativa di LA bemolle maggiore ha quattro bemolle in chiave, la mano destra ha la seguente diteggiatura: 12341234 a salire, 43214321 a scendere. La mano sinistra invece resta invariata: 54321321 a salire e 12312345 a scendere.


La scala di si minore, che in quanto relativa di re maggiore ha due diesis in chiave, prevede invece la seguente diteggiatura: mano destra, 12312345 a salire, 54321321 a scendere; mano sinistra, 43214321 a salire, 12341234 a scendere.



TESTI CONSIGLIATI:

Recensione libri: "Consigli ai giovani musicisti", di Robert Schumann e Steven Isserlis

Robert Schumann fu compositore, pianista e critico musicale, annoverato fra i più grandi maestri del Romanticismo. Oltre ad aver precorso con la sua arte soluzioni musicali che si sarebbero diffuse per oltre 150 dopo la sua morte, fu anche particolarmente attento all'istruzione dei fanciulli. Le composizioni che scrisse per l'infanzia e la gioventù sono probabilmente le più famose di questo genere. 

Oltre ai bambini
Schumann aveva a cuore anche la sorte dei giovani musicisti. Fu proprio questo desiderio di rendersi utile alla formazione degli artisti in erba che lo spinse a scrivere un opuscolo intitolato Regole di vita musicale

Scritti nel 1848 per accompagnare il celebre Album per la gioventù, si tratta di un compendio di aforismi e consigli per i giovani che intraprendono lo studio musicale, e dispensano una saggezza ancora oggi preziosa.


Grazie al violoncellista e saggista inglese Steven Isserlis, oggi queste massime sono stare raccolte nel libro Consigli ai giovani musicisti, o regole di vita musicale e pubblicato in Italia da Curci YoungIsserlis seleziona i vari pensieri di Schumann e li riordina, commentandoli con le sue argute riflessioni, frutto della sua lunga esperienza di artista, protagonista delle principali stagioni concertistiche di tutto il mondo. Il risultato è un manifesto per tutti i musicisti, studenti, docenti e appassionati di musica.


Con questa lettura da consumare tutta d'un fiato o distillare a piccole dosi, come tante perle di quotidiana saggezza, Isserlis (di cui Curci Young ha pubblicato anche Perché Beethoven lanciò lo stufato e Perché Ciajkovskij si nascose sotto il divano) ci dona un altro brillante saggio del suo modo tutto originale di leggere e spiegare la musica.

Buona lettura!




martedì 3 novembre 2020

La prima Butterfly, una Tragedia musicale moderna

Quando ferveva il lavoro su Madama ButterflyPuccini scrisse al librettista Illica (16 novembre 1902): "L'opera deve essere in due atti. Il primo tuo e l'altro il dramma di Belasco con tutti i suoi particolari. Assolutamente ne sono convinto e così l'opera d'arte verrà tale da fare una grande impressione. Niente entr'acte e arrivare alla fine tenendo inchiodato per un'ora e mezzo il pubblico! È enorme, ma è la vita dell'opera".

Era un proposito assai radicale rispetto alle abitudini del pubblico italiano ed internazionale d'inizio secolo (Salome e gli altri atti unici di Richard Strauss erano di là da venire, mentre Wagner richiedeva troppi sforzi d'allestimento per entrare nel repertorio di diffusione capillare, specie in Italia). Ma tale scelta era una logica conseguenza della molla creativa che aveva spinto il compositore verso il nuovo soggetto, con partecipazione emotiva ancor più accentuata del consueto. Assistendo alla play di Belasco da cui Madama Butterfly avrebbe tratto origine, Puccini era stato rapito dall'efficacia drammatica dello scorcio della veglia di Cio-Cio-san in attesa di Pinkerton, già quasi un intermezzo "musicale" fatto di suoni concreti riverberati sulla scena, convincendosi che, a dispetto di un palese modernismo e dei costumi nipponici, aveva di fronte una tragedia potentissima, che seguiva gli schemi più sperimentati della tradizione occidentale. Cimentarsi con quel genere significava aprire un nuovo filone nel teatro musicale fin de siècle, che sarebbe stato poi alimentato da opere tratte direttamente dai miti, da Elektra di Strauss (1909) a Fedra di Pizzetti (1915), sino all'Oedipus Rex di Stravinskij (1927) e oltre.

Anteponendo un antefatto dettagliato (l'atto di Illica ispirato anche al romanzo di Pierre Loti Madame Crysanthème), Puccini avrebbe ottenuto il necessario parodo, dove mettere a fuoco il conflitto che sta alla base della peripezia, lo scontro fra due civiltà, Est ed Ovest, grazie a scene, costumi ed esotismo musicale. Che un simile disegno fosse nella sua mente lo suggerisce un'altra lettera a Illica, del 5 dicembre 1901: "Ti raccomando l'ultimo quadro e pensami a quell'intermezzo, per servirmi del coro: bisogna trovare qualcosa di buono. Voci misteriose a bocca chiusa (per esempio)".

L'insistenza per impiegare il coro in un dramma dominato da un solo personaggio dovrebbe far pensare che Puccini abbia intuito la sua valenza simbolica, in uno schema tragico dalle fattezze classicheggianti. Ma le analogie con quanto accade all'eroe nell'Aiace di Sofocle chiariscono come gl'intenti del compositore non fossero affatto casuali. Aiace Telamonico si suicida gettandosi sulla spada per aver perduto l'onore, e prima di morire congeda Tecnessa che non vuole rassegnarsi all'ineluttabile:. Rivolge poi un addio al figlio, a cui augura un futuro più sereno del suo: "Figlio, deve toccarti successo migliore del padre. [...]. Pure, già ora ho motivo d'invidia per te: non hai sentimento della mia miseria. Non possedere un io che pensa; ecco l'età più cara!". Come Butterfly, che muore con onore per non aver potuto serbar vita con onore suicidandosi con la lama paterna, dopo aver congedato Suzuki imponendole di tener compagnia al figlioletto che gioca, e che infine eleva un addio disperato al suo bimbo, spinto nella stanza dalla cameriera fedele per distrarla dal suo proposito, esprimendo un pensiero volto al futuro: "Perché tu possa andar,/di là del mare,/senza che ti rimorda ai di maturi,/il materno abbandono...".

Altre prove per accreditare la deliberata scelta tragica vengono da precise simmetrie musicali nel modo di iniziare e di finire i due atti, che indicano con chiarezza un percorso drammatico in due parti. Il primo atto si chiude dolcemente con un accordo che sospende la normale risoluzione alla tonica, ed evoca la precedente uscita in scena della fanciulla, simboleggiando la sua apertura all'amore - il secondo viene sigillato da un accordo analogo alla fine di una soluzione cadenzale a piena orchestra (il tema del suicidio), e segna invece lo scioglimento del nodo, tanto che la conclusione del primo atto ci tornerà in mente a posteriori come coerente premessa a una tragedia compiutasi. Un ampio fugato a quattro parti, tra le massime espressioni tecnico-formali in musica, s'ode all'apertura del sipario, come per mettere in enfasi la funzionalità del "nido nuzïal" predisposto da Goro, - ed è ancora con un fugato, ma a tre voci e di corto respiro, che inizia il second'atto, stabilendo, come nel caso dei finali, un rapporto di causa ed effetto tra i due momenti: la casetta si è trasformata in una prigione, e la musica, nel trascinarsi stancamente sugli stessi schemi, ci fa vivere il decorso temporale ("tre anni son passati"), smascherando l'illusorietà delle convinzioni di Butterfly.

In questo schema gioca un ruolo importante la posizione del coro, a tre quinti del second'atto, che canta a bocca chiusa una dolce ninna-nanna, cullando la protagonista nell'ultimo amaro istante d'illusione, e al tempi stesso separa chiaramente la peripezia dallo scioglimento. Qui Butterfly  ha finalmente trovato la sintonia con un rarefatto paesaggio sonoro che vibra insieme a lei, voci remote che potrebbero essere misteriosi spiriti augurali, o fantasmi sereni: in una tragedia, quando canta nell'Esodo, il coro prende la parte dell'eroe, e lo assiste nel compimento del gesto finale.

Infine Cio-Cio-san soddisfa appieno le condizioni di un'eroina tragica: fanciulla quindicenne strappata all'età "dei giochi" (come recita il libretto), aderisce a un costume sociale del suo paese e del suo tempo, ma il matrimonio rappresenta ai suoi occhi il riscatto dalla miseria e dall'infame professione della geisha. La statica condizione di moglie "americana" vive solo nel suo autoconvincimento, e viene rapidamente demolita dal precipitare di eventi che la costringeranno ad accettare la legge eterna di ogni tragedia: chi ha turbato l'ordine sociale [la cosiddetta hamartia aristotelica], come lei stessa ha fatto innamorandosi di un uomo cui doveva solo procurare svago, seve ristabilirlo col proprio sacrificio [la katharsis].

Topoi riconosciuti del genere tragico, e gesti musicali precisamente coordinati ad essi, sostengono dunque la struttura della tragedia giapponese di Puccini, che purtroppo fu realizzata compiutamente soltanto nel debutto di Madama Butterfly alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1904. Da quell'infausta serata, in cui il pubblico fischiò impietosamente, sobillato da una claque ostile al maggior compositore italiano del momento e al suo editore Ricordi, ebbe inizio un processo sistematico di revisione dell'opera, dalla macrostruttura (l'atto conclusivo fu scisso in due parti) sino ai dettagli, che la rense uno dei casi più complessi della filologia musicale di tutti i tempi.

L'opera vista a Milano era assai diversa da quella corrente. Il prim'atto, ad esempio, era intessuto di scenette di colore locale (ora tagliate), dove i giapponesi apparivano ridicoli talora sino al grottesco, offrendo a Pinkerton ripetute occasioni di schernirli con battute sprezzanti. Lo zio Yakusidé, già ubriaco all'inizio del banchetto nuziale, cantava un'aria da osteria ("All'ombra d'un kekì / sul Nunki-nunko-yama"), sollecitato a esibirsi con protervia da Pinkerton. Dal canto suo il tenente reagiva con poco garbo ai nomi poetici dei tre servi, apostrofandoli rozzamente "Muso primo, secondo e muso terzo", e non perdeva l'occasione di esprimere tutto il suo cinismo quando, nel finale, non si lasciava andare al rimpianto per la perduta felicità (l'aria "Addio, fiorito asil", aggiunta per la ripresa bresciana) e, dopo aver consegnato un po' di denaro a Sharpless, se ne andava alla chetichella borbottando "Voi del figlio parlatele, / io non oso. Ho rimorso; / sono stordito! - Addio - mi passerà".

In tal modo giapponesi e statunitensi erano posti quasi sullo stesso piano, e l'incomprensione tra civiltà era reciproca, mentre nella Butterfly attuale la presenza nipponica risulta più dignitosa, e la responsabilità del fraintendimento delle regole di una cultura diversa pesa di più sugli americani.

Anche la musica della protagonista differisce nella Butterfly milanese, a cominciare dal tema cardine di tutta l'opera, perché accompagna la protagonista al suo ingresso in scena, fissando l'immagine della donna innamorata nel suo poetico contesto  naturale; e si riaffaccia in molteplici circostanze per caratterizzare il rapporto fra il sentimento della geisha e la realtà. Qui la melodia sopra l'accordo  di tonica scende alla dominante - rimanendo dunque sul primo grado in secondo rivolto - per poi risalire alla sensibile creando una dissonanza di settima solo sull'ultimo quarto, mentre nelle versioni successive la dissonanza compare già a metà della battuta. Ne risulta una maggior fragranza armonica, visto che la sequenza si ripete in progressione su sei gradi di una scala per toni interi al basso, dove l'accordo aumentato assume la funzione di quinto grado della nuova tonalità.

Diversi sono anche i due grandi assoli tragici di Cio-Cio-san. Nel primo, "Che tua madre" i versi tratteggiano una madre visionaria, che presenta lo sfortunato bimbo all'Imperatore, invece della madre che, al mestiere della geisha preferisce il suicidio. Nella conclusione Puccini cambiò anche la melodia rendendola più drammatica, con ampi balzi verso l'acuto, e fu mosso dallo stesso intento anche nell'aria conclusiva ("Tu, tu, piccolo iddio!"), rettificando il profilo melodico da discendente ad ascendente.

Un'ultima ma sostanziale diversità va segnalata all'ascoltatore: il finale ultimo, con l'ingresso nella stanza dove si era consumata la vita di Butterfly della moglie americana di Pinkerton, che dialoga a lungo con la piccola giapponese, intonando molti dei versi che attualmente sono affidati a Sharpless, mentre Kate rimane fuori nel giardino, priva o quasi d'identità musicale. Se nella prima versione  Puccini e i librettisti vollero contrapporre direttamente le due donne, nell'ultima versione, accogliendo la prospettiva del regista Albert Carré che mise in scena l'opera a Parigi nel 1906, preferirono orientarsi verso una visione più simbolista del dramma.

Assegnando a Kate la parte attiva di giustiziera nel compimento della tragedia, invece che quello di fantasma delle private ossessioni di Cio-Cio-san, il compositore si era mosso in piena coerenza con il trattamento del genere tragico che rimane il pregio della prima Madama Butterfly, un'opera diversa da quella che conosciamo, perfettibile forse, ma dotata di quel fascino che solo l'ispirazione conferisce ai capolavori.

(Tratto dall'introduzione di Michele Girardi al libretto di Puccini, Madama Butterfly (Original 1904 Version), della Naxos)

mercoledì 7 ottobre 2020

Origine e sviluppo del corale luterano


« Corale » è aggettivo sostantivato derivante dall'espressione « cantus choralis » e nella sua accezione primitiva - ma ancor oggi viva nella terminologia tedesca (Choral) - indica il canto omofono o monofonico, cioè una melodia da eseguire choraliter (più voci all'unisono, senza accompagnamento), durante il servizio liturgico della Chiesa Cattolica o di quella Riformata. Ne sono esempi più cospiqui, da una parte il Canto gregoriano in lingua latina, dall'altra quello luterano, il tedesco Kirchenlied, il cui repertorio comprendeva non solo brani espressamente composti o derivati da melodie gregoriane oppure profane (contrafacta), ma anche canti religiosi in lingua materna anteriori alla riforma (Katholische Kirchenlieder).

Nella corrente nomenclatura, non solo italiana, il termine « corale » viene tuttavia riferito più particolarmente al Kirchenlied protestante, ma nella sua « versione » polifonica: melodia utilizzata come cantus firmus in un contesto contrappuntistico variamente elaborato (corale-mottetto, in stile « figurato »), o - caso veramente « popolare » e tipico - armonizzata a quattro voci dispari procedenti in omoritmia, con testo in versi riuniti in strofe, che trovano adeguata corrispondenza nell'intonazione musicale (corale « semplice »).

[...] Il riferimento alla tecnica di comporre sul cantus firmus implica almeno un accenno alle sue vicende storiche: per questo bisogna rifarsi addirittura ai primi documenti della polifonia occidentale, cioè ai procedimenti organali codificati nell'adespoto trattato medioevale Musica enchiriadis, redatto nel IX secolo. Qui, appunto, è una melodia non inventata, ma desunta dal repertorio gregoriano (vox principalis) che viene contrappuntata « nota contro nota » [punctus contra punctum, da cui contrappunto] da una parte inferiore (vox organalis) a distanza costante o in maniera meno rigida.

Nei secoli seguenti, questo metodo compositivo si arricchisce di procedimenti più elaborati per quel che riguarda gli elementi di libera invenzione (possibilità di intreccio delle linee; svolgimento a melismi sempre più estesi). Resta comunque fermo l'impiego, come perno della costruzione contrappuntistica, d'una melodia tradizionale, la quale passerà  tuttavia alla parte inferiore dell'organismo sonoro, sì da configurarsi sempre più come tenor (dal latino tenere), cioè come parte che « tiene » a lungo le singole note del canto dato, isolandole una dall'altra sotto le ampie fioriture delle voci superiori.

Il principio di costruire un brano a più voci sul tenor permane anche nel mottetto dei secoli XIII-XIV [...]. Esso viene conservato pure presso i maestri franco-fiamminghi del XV secolo, i quali tuttavia non presentano sistematicamente il cantus firmus nella parte più grave dell'ordito polivoco, ma lo affidano anche alle voci superiori; si deve considerare, del resto, che nel frattempo l'ambito sonoro si è esteso anche al di sotto del tenor stesso, cioè ad una parte di contratenor bassus (bassus). Inoltre, il cantus firmus, anche variamente modificato nel suo aspetto melodico e ritmico, assume rilievo particolare nell'intreccio delle parti e, nella messa, ha spesso funzione di motivo ispiratore e conduttore nella composizione dei vari brani, fino a conferire all'opera aspetto ciclico. Tali procedimenti verranno mantenuti nell'epoca aurea della polifonia (sec. XVI), e troveranno applicazione anche nella musica strumentale, in modo speciale in quella destinata alla pratica religiosa (inni, versetti e corali per organo).

[...] Per l'affermazione del corale luterano a più voci, nel suo aspetto di melodia armonizzata, dobbiamo menzionare, accanto alla grande raccolta del Praetorius, quella di Hans Leo Hassler (1564 - 1612), uscita a Norimberga negli stessi anni (Kirchengesäng. Psalmen und geistliche Lieder, auff die gemeinen Melodeyen mit vier Stimmen simpliciter gesetzet, 1608). Tuttavia, le basi di questa maniera di trattare polifonicamente il Kirchenlied si riscontrano già nel corso del Cinquecento: nella raccolta del Walther, come si è visto (raccolta giunta nel 1551 alla quinta edizione, molto ampliata), e poi soprattutto in una vasta antologia pubblicata a Wittenberg da Georg Rhaw (Newe deudsche geistliche gesenge CXXIII, 1544).

Al 1627 risale l'edizione lipsiense del Cantional oder Gesangbuch Augspurgischer Confession di Johann Hermann Schein (1586 - 1630), opera importante per il primo sviluppo del corale polifonico con basso continuo per organo o altri strumenti (« für die Organisten, Instrumentisten und Lautenisten »). Tredici anni dopo vede la luce a Berlino il Newes vollkömliches Gesangbuch Augspurgischer Confession di Johannes Crüger (1598 - 1663), altra raccolta notevole fra le centinaia di collezioni del genere stampate nel Seicento. 

Libri di corali furono pubblicati anche nel corso del XVIII secolo, ma fra essi ci limitiamo a menzionare l'importante antologia di melodie (quasi tutte del repertorio tradizionale) armonizzate da J. S. Bach, uscita postuma a Lipsia, in 4 parti, a cura di Carl Philipp Emanuel Bach e Johann Philipp Kirnberger (J. S. Bach vierstimmige Choralgesänge, 1784 - 1787).

Qui, per ragioni varie, si ferma la storia del corale polifonico, il cui immenso patrimonio verrà tuttavia rivalutato nell'Ottocento, anche in coincidenza con la « scoperta » di Bach. [...] Non vogliamo dimenticare l'attenzione riservata al corale da compositori e musicologi tedeschi, che in questo secolo [XIX] hanno operato in favore della musica sacra protestante nel loro Paese.

Oltre che come pagina a sé stante, il corale luterano ebbe in Germania enorme fortuna, nell'epoca barocca, come base per la costruzione di composizioni anche di vasto respiro, in più parti (mottetti, cantate sacre, passioni e anche oratori): in esse il corale poteva essere presentato nella sua veste tipica di melodia armonizzata (a 4 o più voci, anche in diverse « versioni », secondo il testo da intonare), o elaborato in complesse trame contrappuntistiche, o infine impiegato in arie e pezzi d'insieme per « soli », nonché in brani puramente strumentali. Le opere sacre di Bach, fra cui la Passione Secondo Matteo (1729), bastano a fornire documenti d'arte eccelsa.

[...] [Nell'ottocento, Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), Johannes Brahms (1833-1897),] Anton Bruckner (1824 - 1896) e Max Reger (1873 - 1916) hanno, fra gli altri, variamente trattato il corale, anche in composizioni non soltanto vocali; Gustav Mahler (1860 - 1911), nell'8^ sinfonia (Sinfonia dei mille, 1906), basa la parte iniziale sull'inno latino Veni Creator Spiritus. In tempi più recenti abbiamo casi interessanti in Arthur Honegger (1892 - 1955), per esempio in Le Roi David (1921), specialmente alla conclusione della terza parte (La mort de David); mentre riscontriamo analogie con il corale luterano anche nelle melodie del ciclo Das Marienleben (1924) per soprano e pianoforte di Paul Hindemith (1895 - 1963).

Ma è forse più singolare l'accenno ad un maestro italiano e di fede cattolica, Lorenzo Perosi (1872 - 1956), che nei suoi oratori presenta armonizzazioni di corali non luterani, realizzate tuttavia secondo la tecnica costruttiva del Kirchenlied evangelico. [...] Negli oratori perosiani si trovano anche diversi saggi di cantus firmi intonati all'unisono dal coro con l'accompagnamento dell'orchestra, come la sequenza del « Corpus Domini » Lausa Sion Salvatorem (La passione di Cristo, 1898). [Esempi affini appaiono anche in Goffredo Petrassi e in Karlheinz Stockhausen].

(Dionisi, Toffoletti, Dardo, Studi sul Corale - Storia, tecnica, analisi, esercitazioni, Zanibon, pagg. 7 - 22)

domenica 4 ottobre 2020

Gli strumenti musicali dei popoli primitivi


Sugli strumenti musicali delle popolazioni primitive si sono compiuti numerosi studi. Essi hanno consentito di rilevare, anzitutto, che i primi strumenti furono adattamenti di utensili impiegati per fini pratici, o lo stesso corpo umano, e che relativamente tardi si pervenne alla costruzione di veri e propri strumenti musicali.

Uno studio approfondito degli strumenti dei popoli primitivi fu compiuto dal musicologo tedesco Curt Sachs.

Egli classificò gli strumenti basandosi sui caratteri morfologici (idiofoni, membranofoni, aerofoni, cordofoni) e ne illustrò la distribuzione geografica e culturale.

I più diffusi, anche perché si possono costruire cono oggetti di uso comune, sono gli idiofoni: dalla percussione del corpo umano o di sue parti si passa alla percussione del terreno con i piedi. Altri idiofoni primitivi sono: tronchi d'albero distesi sul terreno, o aperti, o scavati nel senso della lunghezza (tamburi a fessura, di solito con funzioni rituali). La percussione è effettuata con i piedi, o con le mani, o con mazze o battagli. Idiofoni di legno si possono anche sfregare tra di loro o raschiare. Invece si agitano i vari tipi di sonagli ottenuti riempiendo di sassolini o di semi di frutti essiccati (zucche) o dal guscio duro (noci di cocco), pelli di animali, vasi, o infilando pezzi di metallo in contenitori di legno, d'argilla e più tardi di metallo. I tipi più complessi di idiofoni sono gli xilofoni di varie fogge, i litofoni, i gong.

Meno vari sono in questo stadio i membranofoni, basati su pelli d'animali tese su un vaso o sulla cavità costituita da una zucca o noce di cocco e percossi con le mani. A stadi più evoluti appartengono i tamburi in cui una o due pelli sono tese su un recipiente di argilla o su un telaio di legno di forme diverse. I tamburi sono di solito percossi (con le mani o con bastoni), ma possono assere anche essere sfregati.

Tra gli aerofoni lo strumento più semplice è il bastone sibilante, una tavola di legno fissata ad una corda, che volteggiano in aria produce sibili di varie altezze, secondo la velocità.

I tipi più antichi di flauti sono ricavati da osa di animali, svuotate e fornite di alcuni fori laterali. Più tardi vennero i flauti di legno con imboccatura a tacca (come nel flauto dolce) e i flauti di argilla. Frequenti sono anche i flauti a più canne (siringa).

Gli strumenti meno diffusi nelle culture primitive sono i cordofoni. Tra le forme più arcaiche di essi sono da citare l'arco, una corda tesa fra un'estremità di un bastone elastico e un pezzo di corteccia stesa su una buca o tenuta con un'estremità in bocca; essa viene pizzicata o percossa; e il salterio di canna, costruito con una (o più) sottile striscia di scorza staccata da una canna di bambù. Con questi principi (un telaio fisso e corde elastiche tese su di esso e attraverso esso) furono costruiti i cordofoni più perfezionati, classificabili per lo più nei tipi delle cetre e delle arpe.

Si pose assai presto il problema di accrescere l'intensità dei suoni prodotti dagli strumenti, e ciò diede origine all'ideazione e all'applicazione di risuonatori. Il tipo più primitivo di risuonatore è una buca scavata nel terreno e ricoperta di pelli o altro materiale elastico. Altri risuonatori: recipienti di terra ricoperti, tronchi d'albero, zucche o frutti analoghi essiccati. Collocati a contatto del corpo sonoro vibrante, essi ne aumentano la sonorità.

(Riccardo Allorto, Nuova storia della musica, Casa Ricordi, pagg. 24-25)

sabato 3 ottobre 2020

L'origine della musica


Nella seconda metà del secolo scorso [XIX] e all'inizio del presente [XX] un problema che appassionò studiosi di varie discipline (musicologi, ma anche etnologi e antropologi) fu quello dell'origine della musica: quando e come nacquero i suoni e la musica?

Molte delle risposte che furono date rispecchiavano il pensiero positivista, che influenzava la scienza e le ricerche di quel periodo. [...] [Queste teorie però si basavano] sul presupposto che si potesse prospettare l'origine della musica secondo un processo unico e uguale per tutti i popoli e in tutti i continenti. Fu obiettato che è da ritenere impossibile che una realtà ricca e varia qual è la musica possa aver avuto origini monogenetiche.

Passi avanti furono compiuti, nell'approfondimento del problema, dagli studiosi delle successive generazioni, tra i quali Curt Sachs, Erich M. Hornbostel e Marius Schneider, i quali poterono avvalersi nelle loro ricerche della registrazione delle musiche e dei canti di molti popoli primitivi appartenenti a differenti aree etniche. Lo studio dei fotogrammi e la loro comparazione ha consentito di formulare alcuni principi della musicologia comparata. Prevale la convinzione che non sia possibile individuare i momenti precisi nei quali sia nata la musica e che perciò lo studio si debba rivolgere "allo stadio più antico ed embrionale che sia possibile individuare" (C. Sachs), cioè alla musica dei popoli primitivi più arretrati. 

E' diffusa la convinzione che la musica abbia avuto un'origine comune con il linguaggio, e che i primi nuclei di "linguaggio-suono" presentito una varietà assai ampia di moduli sonori, che va dai gridi ai suoni intonati, con modalità di emissione varie e diverse. Il "linguaggio-suono" si riconosce anche nelle emissioni di alcuni strumenti primitivi, quali tamburi, corni, flauti.


Musica e mitologia

Gli studi di antropologia consentono di affermare che nessuna convivenza umana ignora la musica. Quanto, viceversa, essa sia importante, lo si deduce dallo studio delle mitologie, dei riti, delle filosofie di diversi popoli.

Molti di essi considerano la musica un dono degli dei, che alcuni identificano in strumenti musicali; ritengono che il suono, anche quando ha origine da eventi naturali (per esempio il tuono), sia la voce degli dei e manifestazione della loro volontà. In molti miti riguardanti la creazione, è da fenomeni acustici che nasce il dio (o gli dei).

La musica è presente nella mitologia di tutti i popoli primitivi. [...] Molti e fantasiosi sono [per esempio] i miti greci: tra essi quelli di Ermete, inventore della lira da un guscio essiccato di tartaruga; di Orfeo, il cui canto placò le potenze infernali; di Anfione, il cui suono della lira edificò le mura di tebe.

I cantori, i sacerdoti, traggono la loro natura di esseri superiori dal fatto che conoscono le leggi arcane della materia sonora, che sanno pronunciare le parole, le formule, le voci, i canti magici.

I popoli primitivi pongono al vertice della struttura sociale (tribù o altro) chi ha la facoltà di pronunciare le formule rituali, nelle quali il suono prevale sulla parola. Sono queste formule, questi canti, mescolanze di "linguaggio-suono" che regolano i rapporti sociali primari all'interno delle comunità tribali, e che si manifestano attraverso i canti rituali della nascita, della circoncisione, delle nozze, i riti funerari, di guarigione e quelli legati al rivolgimento delle stagioni. 

In un più elevato campo di pensiero si pongono le speculazioni filosofiche (India, Cina) che collocano il suono al centro di un sistema cosmogonico, che coinvolge fatti ed eventi di svariata natura: il ritorno delle stagioni, i punti cardinali, i fenomeni naturali, i segni dello zodiaco, le classificazioni degli strumenti, eccetera.

(Riccardo Allorto, Nuova storia della musica, Casa Ricordi, pagg. 23-24; 25-26)

domenica 6 settembre 2020

Edizioni musicali: le Romanze senza Parole di Mendelssohn in un'edizione "per lo studio" (G. Henle Verlag)

Con la serie Studien-Edition, la Henle Verlag vuole fornire varie sue pubblicazioni in Urtext nel più piccolo e pratico formato 17 x 24 cm, rilegato in un'elegante copertina blu e gialla. Eccellenti per lo studio e l'analisi, il testo musicale ivi riportato è identico a quello presentato nell'edizione maggiore. In più, rispetto a quest'ultima, la versione Studien si occupa non solo di opere per pianoforte e musica da camera, ma anche di composizioni per orchestra e coro.

In questo formato "per lo studio", la Henle Verlag presenta le Romanze senza parole di Felix Mendelssohn Bartholdy, contenute nel terzo e ultimo volume delle Composizioni complete per pianoforte dell'edizione Urtext

Le Romanze senza parole di Mendelssohn sono senza dubbio tra le opere più famose di questo compositore, ed ebbero grandissima diffusione nel contesto della cultura musicale borghese dell'epoca. Fu probabilmente anche questo uno dei motivi che portarono a ritenere Mendelssohn un mero "compositore da salotto". Questa concezione è tuttavia ingiusta, se tutt'oggi la conoscenza di queste piccole composizioni e della loro perfezione formale è considerata, nei conservatori, l'anticamera per lo studio della sonata.

La dicitura "Romanze senza parole" (Lieder ohne Worte in tedesco) non venne originariamente prevista da Mendelssohn, La prima raccolta (op. 19 B), venne pubblicata da Novello, a Londra, nell'agosto 1832 con il titolo di "Melodie originali". Quando, in gennaio, Mendelssohn offrì l'opera a Simrock, egli propose "Romanze per pianoforte"; in una lettera del 15 giugno dello stesso anno si riferì ad esse con la semplice dicitura "Pezzi per pianoforte", ma questa volta fa capolino anche la locuzione "romanze senza parole". Tale fu il titolo che comparve anche nell'edizione inglese dall'op. 30 in poi.

Tutte le raccolte sono composte da sei romanze e vennero pubblicate a intervalli irregolari (1832/33, 1835, 1837, 1841, 1844 e 1845); le opere 85 e 102 apparvero addirittura postume, nel 1851 e 1868. I pezzi di queste raccolte postume sono in parte ricavate da manoscritti che ne contenevano anche altri poi confluiti nelle opere 53, 62 e 67. Questo prova che, da una parte,  Mendelssohn, per una qualche ragione, non riteneva di dover pubblicare questi pezzi in raccolte postume, mentre, dall'altro, che le varie pubblicazioni non prevedevano una scaletta già prefissata, ma che ogni pezzo era aggiunto dal compositore scegliendo fra quelli già composti. Ancora oggi, infatti, fatte salve l'op. 85 e la 102 e il "Reiterlied", composto intorno al 1844, le altre composizioni appartenenti a questo genere rimangono inedite.

In questa edizione sono pubblicate tutte le raccolte, comprese le due postume, il "Reiterlied" ed anche le varianti di alcune romanze, frutto delle innumerevoli correzioni a cui Mendelssohn sottoponeva le sue composizioni. Nel commento posto alla fine del volume, sono annotate tutte le variazioni e le fonti, autografe e a stampa, su cui si è basata la presente pubblicazione. Dei sottotitoli di cui sono dotate alcune romanze, infine, non tutti sono originali di Mendelssohn: in questo caso essi sono riportati tra parentesi sopra ogni pezzo, mentre quelli non fra parentesi sono originali dell'autore.

lunedì 10 agosto 2020

Le sonate per pianoforte di Mozart spiegate da Claudio Arrau (Parte II)


I cinque o sei anni che passano tra la [Sonata ndc] KV 333 e la Fantasia e Sonata in do minore furono gli anni del massimo successo come compositore e pianista di Mozart a Vienna. Sono gli anni delle sue "accademie" (i concerti a pagamento a suo nome), cui l'aristocrazia come il pubblico di Vienna accorreva perché erano alla moda, e in questi anni egli scrisse la maggior parte dei suoi concerti per pianoforte. Ma quando la sua vita giunse a un nuovo momento di sconvolgimento emotivo egli tornò a rivolgersi al pianoforte solo.

A mio avviso, la Fantasia e Sonata in do minore, KV 475 e KV 457 (la prima datata Vienna, 20 maggio 1785 e l'altra 4 ottobre 1784), rappresentano una crisi nella vita di Mozart, non dissimile da quella cui era andata incontro quando scrisse la KV 310 a Parigi. Lo stesso Mozart volle che i due brani fossero pubblicati insieme, e insieme essi formano un'impressionante opera unitaria, tanto che è ben difficile comprendere come mai capiti ancora così spesso che le due opere vengano eseguite separatamente. Suonare la sonata da sola è come presentare un grande dramma amputato del prologo. La dedica apposta dallo stesso Mozart alla prima edizione suona: "Fantasie et Sonate Pour le Forte-Piano composées pour Madame Therese de Trattnern par le Maître de Chapelle W. A. Mozart. Œuvre XI."

Non ci è noto con precisione quali fossero i rapporti intrattenuti da Mozart con la bella e dorata, e sposata, sua allieva Therese von Trattnern, ma sappiamo che egli le inviò una lettera contenente delle istruzioni sul modo in cui il brano doveva essere eseguito. Essa è stata purtroppo perduta o distrutta (come anche tutte le lettere da lei inviate a Mozart). La fantasia potrebbe realmente esser stata composta proprio il giorno che il manoscritto reca come data, a giudicare dall'intensità e dalla profondità di sentimenti che ne anima il ricco flusso improvviso. Pare una piccola fantastica opera, un mondo intero concentrato in cinque minuscole scene.

La Fantasia costituisce "un gigantesco arco di ingresso" alla Sonata, per dirlo con St. Foix. E, come possiamo vedere in tutti e tre i movimenti, sono degli elementi  tratti dall'una a far da scheletro all'altra. Nell'ultimo movimento, per quattro volte Mozart fa discendere la linea melodica della mano sinistra fino all'estremo grave della tastiera. È una cosa  misteriosa, ha persino qualcosa di grottesco, come una discesa nell'abisso. Egli fa la stessa cosa quattro volte nel primo movimento e due nel secondo, e per tre volte la ripete nella Fantasia. Non può non esservi un significato simbolico.

Il simbolismo di questo brano si muta nella tetra realtà nelle opere per pianoforte solo scritte negli ultimi anni. Il senso della tragedia e della sofferenza della vita si mutano in rassegnazione e presentimento della morte. Tutte o quasi le sue ultime grandi composizioni per il pianoforte solo recano i segni di quest'ultima strana fase della sua evoluzione creativa. Vi è ancora la tremenda Sonata in fa maggiore KV 533/494, da considerare. Il Rondò KV 494 è del giugno 1786, poco più di un anno dopo la fantasia in do minore, e l'Allegro e l'Andante risalgono al gennaio 1788. Come per la Fantasia e Sonata, è lo stesso Mozart ad aver accostato il precedente Rondò all'Allegro e all'Andante di più recente composizione per farne un lavoro unico.

L'Allegro e l'Andante hanno la grandezza di respiro polifonico e di audacia armonica che tanto caratterizzano quello zenith della sua vita creativa. L'altezza di percezione che tocca l'Andante ha qualcosa di incredibile persino per Mozart. Il Rondò, con il suo trio in tre parti in fa minore, conclude quest'intera maestosa e ineffabile ampia composizione con una nuova cadenza che ricollega insieme il tutto e giunge a farne nel suo modo specifico uno dei risultati  più alti da lui mai conseguiti in ogni genere musicale.

La Sonata in do maggiore KV 545, che precede le KV 570 e 576, è comunemente considerata una sonata "facile", o "kleine", come è scritto in tante delle sue edizioni. Lo stesso Mozart scrisse "ad uso dei principianti". Eppure nulla potrebbe essere più fuorviante, perché pur essendo abbastanza semplice da suonare è tutt'altro che facile a interpretarsi. Composta nel giugno 1788, è tutta pervasa dal sentimento della fine, soprattutto nel movimento lento, ed è tutta scritta per l'anima di un fanciullo. Si tratta dell'ultimo Mozart, semplice e profondo a un tempo, da prendersi sul serio e non certo alla leggera. Vista in questa luce, questa diventa un'altra sonata - una rivelazione.

Le ultime due sonate per piano, quella in si bemolle maggiore KV 570, e quella in re maggiore KV 576, sono per così dire la conclusione di un'esperienza spirituale. In quella in si bemolle, in particolare (quella in re maggiore è più una sonata galante), Mozart spoglia la sua costruzione pianistica fino quasi ai più nudi contorni e, in tono di astratta remota lontananza, di solitario commiato, si spinge in un ultimo tuffo alle stesse dolenti radici dell'essere al mondo.

(tratto dal libretto di presentazione all'album Claudio Arrau plays Mozart - Complete piano sonatas)

domenica 9 agosto 2020

Le sonate per pianoforte di Mozart spiegate da Claudio Arrau (Parte I)


Le prime sei [sonate di Mozart ndc] sono dei lavori di gioventù. Mozart le scrisse a Salisburgo mentre si preparava per l'ultimo suo grande viaggio, che doveva condurlo a Monaco, Mannheim e Parigi in un ulteriore tentativo di trovare un posto adeguato alle sue doti. Lo stile galante le pervade tutte; ma quanto scintilla, attraverso di esso, il genio di Mozart! Quasi tutti i movimenti lenti fanno presagire i sublimi e tragici movimenti lenti che verranno in futuro. Mai l'elemento galante rimane privo del soffio redentore del suo genio. In particolare il primo movimento, splendidamente espansivo, della Sonata in mi bemolle maggiore KV 282 e la Sonata in re maggiore KV 284, un ampio lavoro, predicono già le grandi cose destinate a venire a maturazione quando una ricca varietà di nuove impressioni musicali e di esperienze emozionali lo avrebbe colpito a Mannheim con la violenza di un'esplosione.

Da questo viaggio fatale derivano le sue successive sette Sonate per piano (le KV 309, 310, 311, che appartengono a Mannheim e Parigi, e le KV 330, 331, 332 e 333, legate al ritorno a Monaco e Vienna) e anche il compimento della sua prima grande opera, l'Idomeneo. Tutte e sette vennero pubblicate a Vienna, quando cominciava a dispiegarsi il suo primo grande periodo di successo. Sei anni sarebbero passati prima che egli tornasse a sentire il bisogno di scrivere una sonata per pianoforte, e ciò sarebbe accaduto proprio in un altro decisivo momento critico della sua vita.

La Sonata in la minore KV 310, composta a Parigi nella primavera del 1778, è fra queste sette la più sorprendente, e costituisce una delle vette della letteratura pianistica, senza pari non solo in quel periodo, ma nell'intera produzione di Mozart. È una grande sonata tragica. Tragica come tragica è la Sinfonia in sol minore, come il Don Giovanni. Ma è anche qualcosa di più. Qui la tragedia è messa di fronte, faccia a faccia, alla giovanile rivolta contro il fato e, come nel pieno di una febbre turbolenta di crisi, Mozart getta al vento ogni cosa, galanteria e cultura insieme, e ne esce con qualcosa di nuovo, e di sorprendente persino in lui - il sommo della passione umana fatta arte.

È una sonata grandiosa, romantica in tutti i sensi del termine, la vera controparte in musica, diversi anni prima di sonate come la "Waldstein" e l'"Appassionata", dello "Sturm und Drang". La sofferenza si fa sentire fin dall'inizio stesso del primo movimento, e per la prima volta non c'è una vera e propria seconda idea, ma solo una sorta di figurazione laterale, come se fosse impossibile arrestare il torrente della selvaggia passione per i consueti requisiti della forma. Nella sezione dello sviluppo quest'eruzione fiammeggiante si esprime nelle improvvise alternanze del fortissimo con il pianissimo, in cui Albert vede "degli improvvisi fulmini di luce che per un istante illuminano la nera oscurità notturna". Nella sezione centrale del movimento lento, nell'ansito delle sue frasi senza fuato, vi sono dissonanze stridenti come quasi in nessun altro luogo in Mozart, ed il Presto finale, con i suoi drammatici sbalzi e l'uso delle terze nel registro grave, con le sue selvagge grida estorte dal dolore, è quasi demoniaco.

Dopo la grande Sonata in la minore, quella in do maggiore KV 330 giunge non come anti-climax, ma come una reazione necessaria. L'intensità e la passione si erano espresse ed esaurite nella prima. E lo stesso può dirsi della famosa Sonata in la maggiore KV 331 che, ispirata alla voga "moresca" del tempo, ricerca una gradevole piacevolezza. Ma persino in questa sonata, che si vuole "leggera", non c'è mai nulla che sia leggero e basta; l'elemento galante è sempre elevato da quello personale e nella terza variazione, in minore, il personale giunge a farsi oscuro. C'è una vera melanconica che corre attraverso l'intera composizione, e non c'è errore peggiore di quello di suonarla come fosse un semplice scherzetto e a gran velocità. In Mozart, sono proprio i brani di questo genere, i più disarmanti, a richiedere con più forza la capacità di scorgere quel nucleo interiore che mai, o quasi, manca di esser presente.

Nella Sonata in fa maggiore KV 332, Mozart ci ha dato un lavoro che, se non arriva alla turbolenza, della KV 310, è però personale, toccante e originale. Per St. Foix, il primo movimento è alla maniera di Beethoven e per Einstein non ha nulla di beethoveniano. Ma è semplicemente Mozart, il Mozart in cui la galanteria viene trasformata da lampi drammatici nel primo movimento, con i suoi strani accenti minacciosi, che ricordano il Don Giovanni e insieme fanno pensare a Beethoven, e con il sublime movimento lento, simile a una grande aria di una delle sue sofferenti eroine, e con il magnifico movimento finale, pieno di incomparabili modulazioni di straordinaria efficacia. La Sonata in si bemolle maggiore KV 333, l'ultima delle sette, ci mostra ormai definitivamente un nuovo senso di quiete, un nuovo livello di maturità, come può accadere di raggiungere solo dopo una grande esperienza che ci abbia costretto a fare tutti i conti della nostra esistenza spirituale.

(tratto dal libretto di presentazione all'album Claudio Arrau plays Mozart - Complete piano sonatas)

sabato 8 agosto 2020

Le sonate per pianoforte di Mozart spiegate da Claudio Arrau (Introduzione)


Il pianoforte è stato per Mozart lo strumento principe. Su di esso, Mozart era capace di improvvisare in modo da lasciare i suoi contemporanei a bocca aperta, folgorati. Per esso, nella sua qualità di massimo esecutore del suo tempo, scrisse le sue più sublimi composizioni sinfoniche - i concerti per pianoforte. Con esso, per tutta la vita rimane in confidenza come con un amico prediletto; fin dall'inizio, e per sempre, fu lo strumento dei suoi più audaci voli creativi.

È nella musica per piano solo che per la prima volta possiamo ascoltare le prime intuizioni del Don Giovanni, dei grandi quartetti e delle ultime sinfonie; seguendo i movimenti lenti, uno dopo l'altro, veniamo a conoscere l'abisso della sua disperazione, e dalla musica pianistica dei suoi ultimi anni, in una misura che ben difficilmente trova eguali in alcun punto della sua produzione, possiamo percepire, e seguirne le tracce, il cammino di tutta la sua evoluzione. Così, nel susseguirsi delle sue ultime composizioni pianistiche, che si tratti delle due Sonate KV 570 e KV 576, del Rondò KV 511, dell'Adagio KV 540 o della Sonata KV 533/494, si rivela quasi con insistente iterazione lo stato della sua mente e del suo animo verso la fine della sua vita. La lotta è ormai prossima al termine, ed ogni cosa si riduce all'essenziale nella nuda purezza delle sue linee di contorno, fino a raggiungere le sfere espressive ove ogni cosa è nota e accettata, ove l'estrema sofferenza e l'angoscia si ergono nude, in solitudine senza timori.

Le Sonate per pianoforte, dalle sei (KV 279 - 284) da lui composte tra i diciassette e i diciannove anni, fino all'ultima (KV 576) del 1789, narrano la storia della vita di Mozart. Fino quasi dal principio egli comincia a riempire le convenzionali forme della sua epoca con il sangue stesso della propria vita. Fino a farne le interiori testimonianze della totalità del suo essere.

(tratto dal libretto di presentazione all'album Claudio Arrau plays Mozart - Complete piano sonatas)

lunedì 3 agosto 2020

Recensioni discografiche: Claudio Arrau ci presenta la sua interpretazione delle Sonate per pianoforte di Mozart


Mozart è lo spirito del suo tempo - del convulso secolo XVIII. Di esso, in lui si concentra tutto lo straordinario slancio verso nuovi e più alti traguardi umani, la forza vitale, il coraggio rivoluzionario, la capacità di invenzione e scoperta - e la fede nell'umanità.

Oggi, noi siamo soliti pensare al XVIII secolo come a un'epoca di sommovimenti e di rivoluzione. Insieme, però, ricordiamo anche che fu quello il tempo che vide la nascita dell'ideale della libertà e della dignità della persona (al contrario di Haydn, Mozart non era disposto a passare la vita in livrea, a corte, e seduto alla tavola dei servitori); che il Werther di Goethe uscì nel 1774; che il dramma di Maximillian Klinger intitolato Sturm und Drang venne stampato nel 1776 (e al titolo deve il suo nome un intero periodo di generale irrequietezza e rivolta - nelle concezioni del mondo come in musica e in letteratura, ben prima dell'avvento del movimento romantico); che la Critica della Ragion Pura di Kant vide la luce nel 1781. E che dire di Voltaire, di Rousseau, di Beaumarchais? Quanto a Mozart, non soltanto egli fu uomo del suo tempo in tutti i suoi molteplici aspetti, ma lo fu come creatore, come colui che realizza nel modo più pieno il suo tempo e lo trasforma insieme nel regno intemporale della grande arte.

Malgrado questo, tuttavia, la grandezza di Mozart vuole esser vista prima di tutto come classica perfezione, e la perfezione classica, secondo un modo di vedere che un po' ci riguarda tutti, è in qualche modo separata dalla profondità dei sentimenti umani. Ed è proprio da qui, naturalmente, che nascono i guai. Cosa porterebbe esservi di più assurdo? Appena l'altro giorno mi è capitato di leggere da qualche parte una critica a un pianista perché suonava Mozart con troppo... sì, nientemeno che "con troppo sentimento". Ci vuole tutto il sentimento possibile già solo per cominciare a capire l'anima di Mozart. Non solamente Mozart era tutto anima, e tutto sentimento, e umanità (e lo esprime, e non fa che ripeterlo, ogni cosa che ha scritto, che ha detto o pensato), ma la sua stessa grandezza nasce proprio dal suo essere così pienamente e interamente umano. In uno, egli è stato Pamina e Tamino, Sarastro e Papageno.

La condizione umana è espressa in Mozart in modo tanto più toccante precisamente perché sofferenza e tragedia vengono fatte camminare mano nella mano, per così dire, con lo stile musicale del suo tempo - il rococò, lo stile galante, la simmetria dell'equilibrio classico.

Se non fosse per la straordinaria pienezza della sua auto-realizzazione come creatore, si potrebbe quasi dire che Mozart (e con lui Schubert) è la figura più tragica fra i grandi compositori. Per lui la tragedia era qualcosa che veniva da dentro, una parte della realtà del suo essere e della sua accettazione della vita - e dunque della morte. In Mozart, contrariamente a Beethoven, alla tragedia non v'è soluzione. In Beethoven, l'esito dell'eroica lotta è sempre un'affermazione, vittoria. Ma in Mozart è ben raro che la tensione tragica conduca a una conclusione vittoriosa.

La letteratura mozartiana per pianoforte solo è ancora considerata una sorta di introduzione a Beethoven, e viene quindi data da suonare, nella maggior parte dei casi, a giovani allievi; e in tal modo rimane quasi sempre un libro chiuso per loro, e di conseguenza per gli altri. Come ogni cosa di Mozart, invece, questa musica richiede la piena maturità della meditazione di un artista. Nulla di meno.

E per finire: mi si domanda sempre perché mai io esegua tutti i ritornelli, il che in Mozart dopo tutto non è così obbligatorio come in Beethoven, che è più volontaristico. Lo faccio perché è così bello. Sopporta la ripetizione, e anzi essa quasi sempre rafforza la struttura e la grandezza dell'espressione. E poi è importante tenere presente che Mozart è intemporale - intemporale al di là degli "strumenti d'epoca autentici", ma non al di là di un'autentica pratica esecutiva, che fa parte della sua voce e della sua espressione. Intemporale al di là di ogni singola interpretazione, ma non dell'interpretazione del sentimento, del senso e della trascendenza che a lui appartengono in eterno.

(Tratto dal libretto di presentazione al cofanetto "Claudio Arraus plays Mozart - Complete piano sonatas")

venerdì 31 luglio 2020

Etimologia dei nomi degli strumenti musicali: OBOE


Fra tutti gli strumenti musicali, l'oboe è certamente fra quelli che ha il nome più strano e curioso. Strumento ad ancia doppia appartenente alla famiglia dei legni (come il fagotto e il corno inglese), l'oboe nasce dallo sviluppo di strumenti musicali più antichi (insieme ai flauti, gli strumenti ad ancia furono fra i primi a comparire nell'antichità). In particolare, l'origine del nome si attesta in Francia alla fine del XVII secolo, dov'era (ed è tuttora chiamato) hautbois. Questo termine nasce dall'unione di haut "alto" e bois "legno", con il significato di "legno (dal suono) alto": per "alto" si intende quel suono acuto e penetrante, un po' nasale, tipico dell'oboe barocco (oggi, invece, con gli sviluppi moderni, l'oboe è capace anche di suonare piano e con delicatezza). A differenza di oggi però, che la pronuncia è diventata /o'bwa/, nel francese del XVII secolo essa era /o'bwε/: da qui deriva quindi l'italiano oboe, in passato pronunciato anche oboè, chiaro prestito dal francese dell'epoca.

mercoledì 29 luglio 2020

Etimologia dei Modi di Dire: VENDETTA, TREMENDA VENDETTA!


Quanti di noi non hanno mai sentito questa espressione? O magari quante volte non l'abbiamo usata, anche in tono scherzoso? Ebbene, sebbene effettivamente questa espressione non abbia nulla di così strano, tanto da far presumere che sia sempre esistita, in realtà si tratta d una formula mutuata direttamente dall'incipit di uno dei duetti più famosi del melodramma italiano: il Rigoletto di Giuseppe Verdi (1851).

La storia del celebre Gobbo che alla corte del Duca di Mantova è perfido buffone e a casa amorevole padre è infatti una storia di vendetta, e vendetta proprio per l'affronto arrecato all'amatissima figlia dallo sfrenato Duca. Presa coscienza dalla stessa figlia della terribile offesa, l'ira del Gobbo esplode: ed è in questo contesto, alla fine del secondo atto, che intona il famoso:

Sì! vendetta! tremenda vendetta
di quest'anima è solo desio!
Di punirti già l'ora s'affretta
che fatale per te tuonerà!
Come fulmin scagliato da Dio
te colpire il Buffone saprà!"


(per gentile concessione di EtimologicaMente)

martedì 28 luglio 2020

Recensioni discografiche: "Semiramide" di Gioacchino Rossini


Con questa registrazione in studio, Opera Rara presenta al pubblico l'ultima e più grandiosa opera italiana di Gioacchino Rossini, che già preannuncia i suoi ultimi capolavori francesi: Semiramide. L'opera, tratta dall'omonima tragedia di Voltaire, venne rappresentata per la prima volta il 3 febbraio 1823 al Teatro la Fenice di Venezia.

Considerata una delle vette indiscusse dell'arte rossiniana, Semiramide accosta vertiginose acrobazie belcantistiche a un impianto orchestrale solido e raffinato, dimostrando la magistrale padronanza dell'arte dell'orchestrazione da parte del compositore pesarese: prova ne è la famosissima sinfonia, dal chiaro impianto sinfonico. Tuttavia, alla sua prima rappresentazione, l'opera venne ritenuta troppo lunga, sicché Rossini stesso si vide costretto ad accorciare molti passaggi. Ancora oggi viene spesso rappresentata con numerosi tagli e riadattamenti. Questa registrazione integrale ripristina pertanto tutte le parti comunemente omesse nelle rappresentazioni moderne, fornendo la possibilità di udire tutta la musica scritta da Rossini per quest'opera, che con la sua grandiosità esotica precorre capolavori monumentali come Aida di Giuseppe Verdi o Turandot di Giacomo Puccini.


il Maestro Sir Mark Elder dirige per questa registrazione l'Orchestra of the Age of  the Enlightenment, con cui collabora già da molti anni, che si caratterizza per utilizzare strumenti musicali originali e comunemente impegnata nell'esecuzione del repertorio barocco e classico (per Opera Rara, Elder e quest'orchestra hanno inciso anche Les Martyrs, Imelda de Lambertazzi e Maria di Rohan di Gaetano Donizetti, oltre che Fantasio di Jacques Offenbach). I timbri brillanti e delicati allo stesso tempo degli strumenti di questa compagine orchestrale donano una nobiltà insospettata alla musica di questo vero e proprio capolavoro dell'opera italiana.

Il cast di questa registrazione è assolutamente di prim'ordine, comprendendo molti cantanti già avvezzi al repertorio rossiniano: Albina Shagimuratova (Semiramide), Daniela Barcellona (Arsace), Mirco Palazzi (Assur), Barry Banks (Idreno), Gianluca Buratto (Oroe), Susana Gaspar (Azema) e David Butt Philip (Mitrane).

Ricoperta da innumerevoli recensioni più che positive dalla maggioranza della stampa specializzata (BBC Review, Gramphone, Opera Magazine per citare solo alcuni nomi; nella scheda dedicata sul sito di Opera Rara si possono leggere tutte le recensioni), questa realizzazione è stata insignita anche di numerosi e prestigiosi premi:
  • Winner of 2019 International Opera Award for CD (Complete Opera);
  • Winner of 2019 International Classical Music Award in the Opera Category;
  • Winner of 2019 Opus Klassik Award for Best Opera Recording;
  • Winner of 2019 Edison Klassiek Award for Best Opera Recording;
  • Opera category nomination for 2019 BBC Music Magazine Awards;
  • Final Shortlist in Best Opera Recording category for 2019 Gramophone Awards;
  • Płytomania (Polish Radio 2), Opera CD of the Year
Buon ascolto!

giovedì 16 luglio 2020

Recensione libri: "L'infinito tra le note - Il mio viaggio nella musica", di Riccardo Muti (Solferino)

"Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. Il mistero è lì, in quello spazio che racchiude l'universo". Con questa frase, si può riassumere interamente le riflessioni che il grande Maestro Riccardo Muti ha raccolto in questo piccolo ma prezioso libro.

L'infinito tra le note - Il mio viaggio nella musica, pubblicato dalla casa editrice Solferino, è suddiviso in otto capitoletti, all'interno dei quali Muti sintetizza il suo modo di vedere la musica e l'arte della direzione. 


Il primo capitolo parla della figura del direttore d'orchestra a tutto tondo, mettendo a confronto nomi celebri del passato con i giovani direttori emergenti, non sempre artisticamente validi. Nel secondo si concentra sul suo progetto di creare una scuola di formazione per direttori d'orchestra secondo la tradizione italiana, oggi in declino, progetto divenuto realtà con l'istituzione nel 2015 della "Accademia dell'opera italiana". Il terzo parla dell'Orchestra Giovanile "Luigi Cherubini" da lui fondata e tutt'ora diretta. 

Si passa poi a parlare della sua lunga opera di riscoperta del repertorio della cosiddetta Scuola Napoletana del settecento (capitolo quarto), da cui tutti i grandi musicisti classici hanno attinto, compreso Mozart. E Mozart e Verdi sono, non a caso, i compositori con cui il Maestro ha avuto più a che fare nel corso della sua carriera (capitoli quinto e sesto). Ma l'opera di recupero di Muti non si è limitata al repertorio napoletano settecentesco, essendosi egli occupato anche del poco conosciuto sinfonismo italiano a cavallo fra otto e novecento (capitolo settimo). 

L'ultimo capitolo tratta infine del suo rapporto con i compositori emergenti e con la cosiddetta musica "contemporanea", sicuramente interessante dal punto di vista della sperimentazione musicale, ma spesso troppo lontana (tanto da risultare a tratti astrusa), dal gusto del grande pubblico.

In continua oscillazione fra considerazioni disincantate dell'attuale situazione musicale (non solo) italiana e una visione del futuro tutto sommato fiduciosa, questo libro è uno scrigno di inestimabili perle di saggezza donateci da uno dei musicisti più illustri e stimati di sempre.


Buona lettura!



Qui un estratto della presentazione del libro fatta dallo stesso autore:

mercoledì 15 luglio 2020

Recensione libri: Lezioni di teoria musicale, di Nerina Poltronieri (edizioni S.E.D.A.M.)

Lezioni di teoria musicale raccoglie le lezioni impartite per molti anni al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma dalla Professoressa Nerina Poltronieri, profonda conoscitrice  della teoria musicale ed ideatrice di un vero e proprio metodo che da lei ha preso il nome.

Il presente volume è il primo che compone appunto il "Metodo Poltronieri", di cui fanno parte anche un corso completo di solfeggi parlati e cantati (esercizi e loro esecuzione pratica), una raccolta di dettati musicali, il manuale Lezioni per il corso di armonia complementare e il libro Fondamenti di educazione musicale, il tutto pubblicato dalle Edizioni S.E.D.A.M.

Il modo di coordinare lo svolgimento logico degli argomenti, caratteristico di questa stimata docente, ha permesso di sviluppare, negli studiosi, il desiderio di apprendere e di comprendere l'importanza della conoscenza della parte teorica per poter aspirare a quella perfezione artistica, che dovrebbe essere la meta di tutti coloro che alla musica si dedicano.

Compatto, pratico ed economico, questo manuale è completo di tutti i punti fondamentali della teoria musicale così come vengono trattati nei programmi dei conservatori. Tutti gli argomenti sono trattati in modo comprensibile per tutti coloro che si accostano per la prima volta allo studio della musica. Sono però anche sviluppati con profondità taluni particolari interessanti, in grado di catturare l'attenzione anche di coloro che la musica la conoscono già. Inoltre, questo libretto è ormai considerato da tempo una guida preziosa e sicura anche per tutti coloro che la musica la insegnano.

Buona lettura e buono studio!



venerdì 10 luglio 2020

Intervista a Ennio Morricone

Intervista integrale ad Ennio Morricone degli anni '90, senza montaggio e tagli, in cui si può assaporare, oltre all'artista, anche l'uomo semplice ed umile che è sempre stato.

domenica 5 luglio 2020

Le scale musicali al pianoforte: scale di DO, RE, MI e SOL minore

Come la scala di LA minore ci ha permesso di constatare, tutte le scale minori hanno la medesima diteggiatura delle loro omologhe maggiori: ne consegue che le scale di DO, RE, MI e SOL minore hanno tutte la seguente diteggiatura, rispettivamente come DO, RE, MI e SOL maggiore: per la mano destra 12312345 a salire e 54321321 a scendere, per la mano sinistra 54321321 a salire e 12312345 a scendere. Ciò che cambia sono le alterazioni e di conseguenza i tasti neri che si incontrano suonando la scala al pianoforte. Nello specifico:
  • La scala di MI minore è l'unica di questo gruppo ad avere un diesis in chiave (il FA diesis), come la relativa SOL maggiore:
  • La scala di RE minore presenta un bemolle in chiave (il SI bemolle), come la relativa FA maggiore:
  • La scala di SOL minore presenta due bemolli in chiave (il SI e il MI bemolli), come la relativa SI BEMOLLE maggiore:
  • LA scala di DO presenta tre bemolli in chiave (il SI, il MI e il LA bemolli), come la relativa MI BEMOLLE maggiore:

TESTI CONSIGLIATI: