domenica 14 febbraio 2021

Recensioni discografiche: Claudio Abbado sul "Don Carlos" di Verdi

"La prima volta che diressi Don Carlos, a Londra nel 1968, iniziai a provare dal quinto atto. Ma la parte precedente terminava con la morte di Posa: niente Sommossa. Si dovette modificare in tutta fretta la regia, aggiungendo un quadro allo spettacolo di Luchino Visconti e insegnando la parte musicale al coro. Fu un incontro esecutivo imprevisto a una partitura studiata a fondo."

L'episodio curioso ricordato da Claudio Abbado durante le sedute di registrazione si presta a una serie di congetture. Scandisce la lunga marcia del direttore che realizza ora l'integrale di Don Carlos, ne indica le principali tappe in teatro - c'è da aggiungere la prima edizione della Scala nello stesso 1968 (ma secondo lo spartito in quattro atti) e l'altra nel 1977, nella versione in cinque atti e con l'inserimento di una serie di brani (seppure in traduzione italiana) che erano stati composti per la versione originale di Parigi - suggerisce mediazioni sul gusto musicale e interpretativo di Abbado, particolarmente sensibile ai problemi di completezza e di rispetto del segno. E di riallaccia all'episodio storico: secondo le testimonianze dell'epoca infatti il baritono Faure, primo Posa della storia, pur non pretendendo che il sipario della Scena del carcere calasse dopo la sua morte in modo da raccogliere tutti gli applausi possibili ed esclusivi, tuttavia sollecitò Verdi ad alleggerire il finale, togliendo lo straordinario Concertato "Qui me rendra ce mort" precedente la fulminea Sommossa.

Il Concertato è tra i sette numeri inseriti come appendice [n. 5] in questa registrazione. "Al di là dello squisito fatto musicale" - ricorda Abbado - "il compianto di Filippo costituisce una rappresentazione vivida, anche sotto il profilo drammaturgico, dell'inedito ruolo politico e personale guadagnato da Posa". E realizza, secondo noi, insieme al duetto con Posa del secondo atto e il soliloquio del quarto, il completamento di una terna perfettamente simmetrica cui è affidato il culmine del ritratto umano e regale di Filippo. Tre momenti così profondi e intimi a causa dei quali Verdi, come Posa, potrebbe venire ripreso dal re: "Votre regard hardi s'est levé sur mon trône". 

"La statura umana di Filippo ci tocca, quella regale ci fa soprattutto pensare", aggiunge Abbado: "il doppio versante su cui corre l'opera non può essere dimenticato o disatteso. La componente umana - sia essa amorosa, dolentemente paterna o immacolata del sentimento d'amicizia - non deve temperare il clima fortemente politico, anzi acuirlo nel contrasto. l'apparente meccanicità di certe azioni e prese di posizione è invece logica vista nel contesto della rappresentazione di potere: quello visibile di Filippo e quello tremendo, non sempre svelato, dell'Inquisizione".

Potere imperioso già in partenza. Elisabetta e la tradita promessa matrimoniale sono le prime vittime del disumano accordo regale. Ma la Ragion di Stato non si discute. Semmai, "col recupero del quadro iniziale [appendice n. 1] che descrive lo stato miserando della popolazione francese, e quindi giustifica politicamente il "prezzo" della pace, il sacrificio di Elisabetta appare meno immotivato e cinico."

Questa scena insostituibile è importante perché introduce, subito, il caratteristico motivo musicale cifrato da quel disegno dell'appoggiatura che rivestirà un ruolo molto importante nel corso di tutta la partitura; una specie di Leitmotiv per i momenti dolorosi, destinato all'amplificazione più vistosa e drammaticamente espressiva nell'inquieta aurora di Filippo, solo nello studio. Ragione di Stato, Ragione di Chiesa: due Stati contrapposti, due centri di potere sottolineati ancori più dal fatto che sono stati  reintegrati quei brani a suo tempo espunti da Verdi, ed ora peraltro maggiormente valorizzati nella lingua originale francese.

"Non ci sono dubbi - conferma Abbado - se il quadro iniziale mette in primo piano il retroscena politico dell'azione, l'Orazione funebre di Filippo sul corpo del Duca di Posa, col suo carico di autorità ferita e di sincero rimpianto, è un atto d'accusa tremendo contro lo strapotere dell'Inquisizione; istituzione terribile, descritta ancora con molta evidenza - come una belva che bracca gli infelici amanti - nel finale originario [appendice n. 6]".

"Lo stesso libretto originale rileva con più precisione della traduzione italiana la volontà verdiana di sottolineare le situazioni. Ad esempio nel grande quadro dell'auto-da-fé l'autorità morale e civile cui Filippo fa riferimento nell'invettiva da lui rivolta ai legati fiamminghi viene così espressa in francese: 'A Dieu vous êtes infidèles, infidèles à votre Roi.' Ciò non è nemmeno paragonabile con l'ambiguità dell'italiano 'infidi', che non contiene il senso forte della denuncia politica-religiosa lanciata contro ribelli civili da esorcizzare come potenziali eretici".

Ora che è stata restituita integralmente la versione originale parigina, perché non registrare qui tutta quella versione? Secondo Abbado l'operazione critico-storica non si giustifica esecutivamente: "mi è parso doveroso il recupero di quei pezzi forzatamente esclusi dalla partitura della prima e degni di essere conosciuti. Quanto al resto è giusto eseguire la musica nella sua ultima versione: dove Verdi ha messo le mani, ha lasciato un segno profondo. Non ha senso ignorare tutta una serie di sostanziali miglioramenti".

D'altra parte l'edizione presente è inedita per altri motivi. "lo studio comparato tra le varie versioni ha permesso di correggere molti errori tramandati alla partitura moderna: errori minimi, inavvertibili da parte di chi ascolta ma significativi. Soprattutto nella minutissima scrittura orchestrale e in quella espressiva che concerne le parti vocali e che costituisce di per sé la prima nitidissima lettura drammaturgica verdiana del libretto". 

"Tra i cambiamenti più evidenti l'assolo di violoncello che prelude la scena del soliloquio di Filippo. Non esiste nel manoscritto: contrariamente a quanto si pensa (e s'è sempre eseguito) quella frase fu destinata da Verdi a tutta la fila. Oppure nella sezione finale dell'atto primo la frase drammatica di Don Carlo ed Elisabetta ('L'heure fatale est sonnée!') è affidata alternativamente, e identica, ai protagonisti con effetto di maggiore smarrimento emotivo, non lasciata a Elisabetta ('L'ora fatale è sonata/contro la sorte spietata') come siamo abituati a sentire". [...] Se la tragedia dell'ora fatale è totale, rende esausti prima che agghiacciati o rabbiosi, la frenesia sensuale e sottile del duetto che la precede ci contagia. Il direttore se ne bea, ammorbidisce gesto e suono, chiede languore e precipitazione a Plácido Domingo e Katia Ricciarelli che cantano col viso accostato. Al colmo del desiderio e dell'esaltazione ("dans le basier des fiançailles") quel "poco rubato sulle terzine" chiesto da Abbado a tutti rende palpabile la magia dell'indimenticabile e non più rinnovabile estasi tra due esseri vergini d'amore e destinati a esserlo per l'esistenza.  "[...] la tragedia suona terribile quanto più l'amore tra i due giovani ci sembra remoto. Inafferrabile". Come l'uomo che cerca Filippo - forse si accontenterebbe di esserlo lui, fino in fondo - come l'utopia politica di Don Carlo e Rodrigo, come il potere che la splendida amante del re [Eboli] crede di avere, come la Francia serena della fanciullezza vagheggiata dalla triste adolescente ora regina Elisabetta, sposa più triste ancora.

"Nous avons fait tous deux un rêve étrange" (atto III), Claudio Abbado è d'accordo. Anche se relativa a un momento e a personaggi diversi, potrebbe essere la frase che racchiude il segreto di quel volatile eppur definitivo amore. Ma se l'immagine viene proiettata altrove e alla parola sogno sostituiamo potere o aspirazione o utopia, tutto il meccanismo drammaturgico dell'opera vi si assoggetta.

(Dall'articolo omonimo contenuto nel libretto allegato al cofanetto Giuseppe Verdi - Don Carlos, della Deutsche Grammophon)

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